mercoledì 12 aprile 2017

LOVING

"Ispirato a una storia vera, Loving rende omaggio al coraggio e all'impegno di una coppia mista, Richard e Mildred Loving, innamorati e sposati nel 1958. La coppia è originaria di Central Point, una cittadina della Virginia nella quale le comunità si integrano più facilmente che nel resto del Sud degli Stati Uniti. Eppure è proprio la Virginia, dove la coppia ha deciso di risiedere e fondare una famiglia, che prima li condanna alla prigione e poi all'espulsione. Richard e Mildred si trasferiscono allora coi figli in un modesto quartiere di Washington. Tuttavia, anche se i parenti li accolgono nel migliore dei modi, l'ambiente urbano non li fa sentire a casa. Spinta dall'imperioso bisogno di abitare nella sua regione natale, Mildred trova infine il modo di tornare in Virginia. Il loro caso giudiziario relativo ai diritti civili, "Loving contro Virginia", finisce per essere giudicato dalla Corte Suprema che, nel 1967, riafferma il diritto fondamentale del matrimonio. Richard e Mildred tornano a casa e la loro storia d'amore è divenuta, a partire da questa epoca, un modello agli occhi di numerose coppie" (dal pressbook). 


Largamente ispirato al documentario HBO del 2011 di Nancy Buirski The Loving Story, Loving racchiude in sé tutti i pregi e i limiti del cinema di Jeff Nichols. Laconicità drammaturgica, padronanza della narrazione in atti distinti, controllata scansione della temporalità e, soprattutto, compenetrazione tra vicende rappresentate e circostanze ambientali: questi punti di forza del suo cinema confluiscono limpidamente in Loving, film che fa del radicamento in un'epoca determinata (la storia si svolge tra la fine degli anni '50 e gli anni '60) e in luoghi ben definiti (la Virginia, Washington) la propria ragione d'essere. Il radicamento nel territorio rappresenta difatti l'asse portante del quinto lungometraggio di Nichols, dal momento che i due protagonisti di Loving (Ruth Negga/Mildred Loving e Joel Edgerton/Richard Loving) sono entrambi forgiati e motivati dalla natura in cui sono vissuti - è lo stesso Nichols a dichiararlo in un'intervista rilasciata a Michel Ciment e Yann Tobin e pubblicata su Positif: "Penso che se si parla di natura, Loving è il film più apertamente rivolto verso di essa. È certamente centrale nei miei film, poiché, secondo me, forma i personaggi che vi hanno vissuto. Ciò che voi siete è là dove avete vissuto". È d'altronde il desiderio nutrito da Mildred di tornare in Virginia a costituire l'autentica motivazione della richiesta di aiuto a Robert Kennedy e, successivamente, dell'approvazione della battaglia condotta dall'Unione Americana per le Libertà Civili, rappresentata dal binomio legale Bernie Cohen (Nick Kroll) e Phil Hirschkop (Jon Bass).

Eppure, nonostante questa compenetrazione tra personaggi e spazio che sembrerebbe suggerire un'apertura della narrazione alle suggestioni ambientali, Loving è un film chiuso. Chiuso in un involucro spaziotemporale e in una meticolosità filologica (si veda il documentario di Nancy Buirski e si prenda atto che Nichols ha girato svariate sequenze nei luoghi originali della vicenda) che, paradossalmente, stabiliscono un dialogo ininterrotto col presente attraverso una domanda implicita che serpeggia costantemente nella coscienza dello spettatore: "al di là della cruciale questione giuridica, le cose sono veramente cambiate?". Detto altrimenti, è proprio in virtù della distanza storica ed estetica esibita dal film che la relazione con la contemporaneità diventa effettiva e stringente. Ma, secondo paradosso, questa comunicazione a distanza è ottenuta al prezzo di una riduzione degli individui messi in scena a organismi vegetali, piante che, sradicate dal territorio di origine, deperiscono e rischiano la morte (il piccolo Donald investito da una macchina nella rumorosa e minacciosa Washington). Una concezione vegetale dell'essere umano probabilmente più retriva, tradizionalista e immobilista della legge segregazionista sconfitta dai coniugi Loving e compagnia civile. La contraddizione tra progresso sociale e regresso vegetale non potrebbe essere più stridente e sconcertante.

Ed è alla luce di questo cortocircuito tra impianto politico libertario e imprigionante radicamento intimistico (ancora una volta il pubblico smentisce e mistifica il privato) che Loving evidenzia l'involuzione umanistica del cinema di Jeff Nichols a partire da Mud (2012). Un'involuzione che ha tutti i tratti dell'edulcorazione rassicurante: la paranoia dilagante di Take Shelter (2011) si è andata diluendo in un umanismo consolatorio ancora intralciato da grumi genuinamente scorretti e non completamente addomesticati (ma non bastano le ipoteche di arrivismo che gravano sull'avvocato rampante Bernie Cohen o le allusioni alla rapacità mediatica per il caso costituzionale a riscattare Loving dalla parabola agiografica). E se Midnight Special (2016), il più bello tra gli ultimi tre film del trentottenne regista dell'Arkansas, conservava comunque una sua oscura carica nomade e disturbante, Loving segna un ulteriore passo verso il paradiso artificiale del cinema edificante. Un paradiso sempre più simile a una serra.

Già pubblicata su www.spietati.it.

domenica 2 aprile 2017

JACKIE

 





"Quando il Presidente Kennedy venne assassinato, la First Lady Jacqueline Kennedy dovette tirar fuori tutto il suo coraggio per superare il dolore e lo choc e ritrovare la fede, consolare i figli e forgiare l'eredità storica del marito" (dal pressbook),








E così veniamo avanti
simili in tutto a quelli di ieri
aggrappati a un'immagine
condannata a descriverci
Dimmi, non è così?


Massimo volume, Le nostre ore contate

 

 

Voglio essere il tuo specchio

 

Chiuso il cerchio morbosamente penitenziale di Il club, è stata la volta della spirale pomposamente metanarrativa di Neruda, film in cui i contorcimenti metadiscorsivi stritolavano ogni possibilità di identificazione dello spettatore e boicottavano qualsiasi ipotesi di definizione univoca del protagonista. L'insegna al neon che sovrastava Neruda, insomma, non faceva che saettare questa sentenza: "La verità è un gioco di specchi". Un trito dogma modernista attorno al quale il film intesseva una bulimica variazione stilistica, finendo per rimanerne schiacciato. Resta il fatto che, pur soffocato dal suo stesso assunto, Neruda ruotava intorno all'idea di verità in quanto riflesso inafferrabile e inarrestabile.

Ebbene, è esattamente la stessa idea di verità come fuga di specchi a muovere e agitare Jackie. Presentato in concorso a Venezia 2016, il settimo lungometraggio cinematografico di Pablo Larraín si sviluppa secondo tre linee ricostruttive che s'intersecano, disegnando un ritratto femminile incorniciato dall'ossessione dell'identità riflessa sia dal punto di vista biografico (Jackie come Mrs. John F. Kennedy) sia da quello puramente grafico (Jacqueline come volto posto quasi ininterrottamente di fronte a superfici riflettenti).

1- L'intervista rilasciata a Theodore H. White (Billy Crudup) pochi giorni dopo l'omicidio del marito e pubblicata su LIFE il 6 dicembre 1963 col titolo An Epilogue.
2 - Il programma televisivo A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy trasmesso sia dalla CBS che dalla NBC il 14 febbraio 1962 (nonché dalla ABC quattro giorni dopo).
3 - Il colloquio, successivo all'intervista, col padre gesuita Richard McSorley (John Hurt) avvenuto nel 1964.

In queste tre situazioni di discorso soggettivo e rappresentazione di sé, Jacqueline Kennedy (Natalie Portman) è mostrata secondo tre angolazioni diverse e complementari: apertamente pubblica nel frangente televisivo (si tratta di esibire ufficialmente i lavori di riqualificazione della Casa Bianca), in bilico tra pubblica e privata durante l'intervista (l'intento di onorare e preservare l'eredità ideale lasciata dal marito si alterna a momenti di fugace abbandono e improvvisa fragilità), squisitamente confidenziale e privata in occasione del dialogo col sacerdote gesuita (qui Jackie confessa a McSorley i suoi pensieri più oscuri e autodistruttivi).


Immagine perfetta, sensazione perfetta

 

Ovviamente è nel pannello sacerdotale che la questione della verità si fa più cocente e dolorosa. Sollecitata dal reverendo McSorley ("God isn't interested in stories. He's interested in the truth", le dice il padre gesuita), Jackie si mostra finalmente disposta a ricordare e riferire gli istanti più drammatici dell'assassinio di John a Dallas: "I told everyone that I can't remember. It's not true. I can remember. I can remember everything", confessa al sacerdote immediatamente prima che ci vengano sciorinati gli highlights più tragici e sanguinosi dell'omicidio. Ma, di fatto, l'interrogazione sulla verità percorre l'intero film, fin dai primi scambi tra Jackie e Theodore H. White. In una delle prime frasi rivolte al giornalista, la vedova Kennedy formula sarcasticamente questa domanda: "The more I read, the more I wonder... When something is written down, does that make it true?". E se White, qualche minuto dopo, risponde alle punzecchiature della diffidente Jackie proclamandosi cercatore di verità da bravo reporter ("I’m just trying to get to the truth. That’s what reporters do"), lei replica altezzosamente, liquidando in scioltezza questa ingenua pretesa e dicendosi perfettamente consapevole del grande divario che esiste tra ciò che la gente crede e ciò che lei sa essere reale ("Oh, the truth. Well, I've grown accustomed to a great divide between what people believe and what I know to be real").

Perché per Jackie, e qui sta il vero nodo problematico del film, la verità risiede nell'immagine. È per questo motivo che, fin dalle prime battute, la rappresentazione televisiva viene da lei proposta sbrigativamente come il superamento dell'arbitrarietà insita nella scrittura: "We have television now. At least people can see for their own eyes". Per Jackie vedere coi propri occhi equivale a conoscere la verità. Non è per capriccio che esige il controllo sulla versione definitiva dell'intervista: "You understand that I will be editing this conversation? Just in case I don't say exactly what I mean", sibila seccamente all'interdetto White ancor prima di farlo entrare in casa. Per lei la parola scritta costituisce un insidioso strumento di manipolazione e, al tempo stesso, un potentissimo dispositivo di mitizzazione: "I believe that the characters we read about on the page end up being more real than the men who stand beside us", confesserà al sacerdote gesuita in una delle sue ultime battute. E non è mera vanità quella che spinge la giovane First Lady a spalancare le porte della Casa Bianca alle telecamere per mostrare agli occhi dei telespettatori americani ("I didn’t do that program for me. I did it for the American people") i lavori di personalizzazione di quella che nel programma verrà ribattezzata "The People’s House": Jackie è davvero convinta che per mezzo dell'immagine televisiva si possa toccare la verità con gli occhi, eludendo le storture diffamanti o magnificanti della scrittura. Ed è questa stessa convinzione circa le proprietà manipolatorie della scrittura che la porterà a "camelotizzare", proiettandola in un reame fatato, l’eredità ideale lasciata dal marito: "Maybe that's what they'll all believe now. Camelot. People like to believe in fairy tales", replicherà alla domanda di padre McSorley se la pubblicazione dell'intervista l'abbia aiutata a guarire. Se l'immagine registra la verità, la scrittura, per Jackie, sta sempre un gradino sotto o sopra la percezione della realtà.


Questa è la tua faccia, dice

 

Naturalmente il film, e in ciò dovrebbe risiedere la sua modernità, si premura di erodere questa fiducia sconsiderata nell'immagine, mostrandoci la "dipendenza iconica" di Jackie in modo quasi caricaturale: dalla già menzionata visita guidata nella Casa Bianca (il primo tour televisivo in assoluto nella residenza presidenziale) al desiderio gloriosamente lugubre confessato a McSorley di essere abbattuta davanti alle telecamere durante la processione funebre allestita per il marito ("In front of the whole world? Famous life, famous death", commenta acutamente il padre gesuita), passando per la priorità assegnata agli oggetti e agli artefatti sulle persone in carne e ossa ("Objects and artifacts last far longer than people, and they represent important ideas in history, identity, beauty", asserisce Jackie nell'intervista, con aria sognante, a un sempre più interdetto White) e, soprattutto, per la deliberata ostensione televisiva dei due orfani Kennedy in occasione del trasferimento ufficiale del feretro al Campidoglio (alla ragionevole ritrosia della devota segretaria Nancy Tuckerman/Greta Gerwig "But the cameras. Those pictures are being broadcast to every corner of the world", Jackie replica categoricamente "Those pictures should record the truth. Two heartbroken, fatherless children are part of that").

Ma il tratto più impressionante di questa erosione iconica si concretizza nella miriade di specchi e superfici riflettenti che accerchiano e guatano Jackie, incorniciandola visivamente senza darle un attimo di tregua. Jackie davanti allo specchio nell'Air Force One (il celebre SAM 26000 creato appositamente per John F. Kennedy) prima del bagno di folla a Dallas; Jackie allo stesso specchio mentre si toglie, gli occhi bagnati di lacrime, le macchie di sangue dal volto dopo l'omicidio del marito; Jackie imprigionata in una fuga di specchi quando, nel suo bagno alla Casa Bianca, si spazzola freneticamente le unghie per rimuovere le incrostazioni ematiche; Jackie di fronte allo specchio nella camera presidenziale mentre indossa i gioielli e si trucca per rivivere idealmente, in passeggiate solitarie sulle note del musical Camelot, l'incanto della dolce era perduta; Jackie allo specchio mentre prova il velo funebre circondata dalle premurose attenzioni della fedele Nancy; Jackie inquadrata attraverso il finestrino dell'auto su cui si riflettono le sagome e i volti della folla durante il trasferimento del feretro al Campidoglio: tutti momenti nei quali è confrontata con la propria immagine speculare, posta di fronte a un'icona che rappresenta totalmente la sua identità e alla quale ha consacrato l'intera esistenza. Per lei, insomma, essere all'altezza di quell'immagine non è questione di vanità, è semplicemente questione di sopravvivenza.

Se l'immagine televisiva, come osservato in precedenza, certifica la verità sottraendola alle storture della scrittura, per Jackie l'immagine speculare svolge parallelamente la funzione di incorniciatura narcisistica. Detto altrimenti, lo specchio le restituisce una tangibile proiezione immaginaria: un Io ideale che fa letteralmente corpo con la sua immagine riflessa e la inchioda a un'identità puramente iconica. Venuto meno il sostegno narcisistico veicolato dal marito (dico "veicolato" perché in realtà, per la First Lady, l'autentica figura del Grande Altro è rappresentata da Lincoln, di cui John F. Kennedy non costituisce che un avatar mortale), a Jackie non resta che questo Io ideale a cui aggrapparsi per non precipitare nel vuoto informe dell'inconsistenza melanconica. E l'apoteosi di questa dipendenza dall'immagine speculare è raggiunta quando, inscatolati i suo averi e quelli dei figli in vista del trasloco imminente dalla Casa Bianca, Jackie ingoia l'ennesima pillola e si guarda allo specchio: è come sorpresa dalla propria immagine, è come se quella presenza la stesse spiando. La camera a mano che la riprende di profilo destro si allontana da lei e, con una soggettiva libera indiretta in cui la visione del regista si impregna della sensibilità della protagonista, sposa la traiettoria del suo sguardo, inquadrando il suo volto incorniciato dallo specchio e mettendolo progressivamente a fuoco.

Ridicolizzata poco prima dal cognato Bobby (Peter Sarsgaard) e guatata dalla propria immagine speculare, Jackie si sente obbligata a cambiare idea e imporre la processione all'aperto dal Campidoglio alla cattedrale di St. Matthew precedentemente annullata per motivi di sicurezza. Messa alle strette dall'Io ideale che l'ha appena scrutata definendosi visivamente, Jackie deve essere di nuovo all'altezza di quella immagine: il corteo funebre avrà luogo e lei camminerà dietro alla bara del marito fino alla cattedrale, nonostante le resistenze dell'entourage del neopresidente Lyndon Johnson ("I've changed my mind. We will have a procession, and I will walk to the Cathedral with the casket", informa con olimpica sicurezza il recalcitrante Jack Valenti/Max Casella). Detto più semplicemente, è stata la sua immagine speculare a farle cambiare idea, ricordandole che lei è Jackie: non una povera vedova affranta e remissiva, ma un'icona regale e combattiva. Si noti, di passata, il parallelismo tra l'espressione meravigliosamente perplessa che Jackie nota sul volto del marito morente ("He had the most wonderful expression on his face, you know? Just before they'd ask him a question, just before he'd answer, he looked puzzled", dice a White durante l'intervista) e quella altrettanto esitante dell'immagine che la sta fissando: è in questo preciso frangente, per mediazione della perplessità, che avviene la coalescenza tra il supporto narcisistico rappresentato fino a quel momento dall'immagine di John/Jack e il riflesso speculare di Jackie stessa. Lo stato d'animo indovinato in punto di morte sul volto del marito si riaffaccia a distanza sullo specchio, investendo Jackie con autorità categorica: si tratta di un'imperiosa saldatura narcisistica assimilabile a un enunciato performativo che enfatizza le sue capacità di prestazione, rigonfiando inaspettatamente il suo Io immaginario: "Questa è la tua faccia, dice".


Sospesa tra questo corpo e la scena

 

Se a questi tratti caricaturali che definiscono la dipendenza di Jackie dall'immagine aggiungiamo la sua ansia espositiva (la predilezione per le folle, il desiderio di manifesti con la faccia di John affissi ovunque, la determinazione megalomanica di riprodurre la magnificenza della cerimonia funebre di Lincoln) e il suo timore per le ripercussioni dell'autopsia sull'integrità visiva del marito ("Make sure they make him look like himself", mormora terrorizzata al cognato Bobby), l'intensità della sua iconofilia raggiunge livelli francamente ossessivi. Un'ossessione per la propria immagine - e per quella del marito come protesi narcisistica - che si presta a una doppia lettura: storica e contemporanea. Nel primo caso si delinea il ritratto di una donna che reca impressi i lineamenti culturali dei primi anni '60, ossia l'impronta di quella civiltà dell'immagine di cui si occupavano e preoccupavano proprio in quegli anni sociologi, teorici della comunicazione e protosemiologi. Jackie come donna del suo tempo, insomma, assoggettata all'etichetta e ai codici iconici che determinavano il protocollo comportamentale dell'alienazione integrata (ricordiamo scolasticamente che Apocalittici e integrati di Umberto Eco è del 1964).

Nel secondo caso, con un salto mortale che ci catapulta nella contemporaneità, si configura al contrario il ritratto di una figura femminile che assembla la propria esistenza affastellando immagini di invidiabile classe ed eleganza, proponendosi come icona di stile. Immagini social, in una parola. Che cosa suggerisce infatti, allo spettatore contemporaneo, quel formato orizzontale dell'immagine speculare che costringe Jackie a essere all'altezza della propria rappresentazione se non un'immagine di copertina? Dall'immagine da copertina per le riviste degli anni '60 e programmi televisivi vincitori di Emmy (A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy valse alla First Lady il prestigioso riconoscimento) all'immagine di copertina/profilo dei mezzi di autorappresentazione contemporanea (Facebook, Instagram, Pinterest, Tumblr e via postando) il salto è discontinuo e azzardato, certo, eppure è proprio in questo balzo spericolato che, secondo chi scrive, è dato indovinare lo straripamento nell'ossessione visiva che contraddistingue la costruzione dell'identità odierna. Una spericolatezza che, tuttavia, precipita nell'ovvietà di una constatazione lapalissiana.

Jackie, dunque, non è soltanto ossessionata dal controllo della propria immagine, ma, secondo una dinamica più insidiosa e perversa, è controllata ossessivamente dalla propria immagine, in un circuito chiuso di rappresentazione iconica condannata a descriverla. Il processo erosivo nei confronti di questo circolo vizioso si conclude emblematicamente nel prefinale quando, abbandonata la Casa Bianca e seppelliti i due figli ad Arlington accanto al marito, Jackie vede dalla limousine alcuni manichini a sua immagine e somiglianza nelle vetrine della città e altri scaricati da un camion per essere esposti: la reificazione iconica ha completato il suo percorso, trasformandola in vero e proprio oggetto di consumo visivo, simulacro mercificato, fantoccio da esposizione. E così il mosaico di sintomi paranoici, nevrotici e narcisistici che compone il ritratto di Jackie sbozzato da Larraín sulla sceneggiatura di Noah Oppenheim rimbalza sull'iconofilia contemporanea per interposta bacheca, finendo per mostrarci tautologicamente la nostra dipendenza dall'immagine nella costruzione inesausta della nostra identità social.

A questo invero logoro motivo di riflessione si congiunge, infine, un altro elemento di non straordinaria originalità, quello dell'ineludibilità consolatoria della dimensione narrativa. La favola leggendaria recuperata da Jackie per mitizzare idealmente l'era Kennedy, difatti, si delinea in modo sempre più evidente come una costruzione di fantasia necessaria a incapsulare il nucleo traumatico realmente vissuto. Senza armatura narrativa il reale si presenterebbe a Jackie come un vuoto letteralmente insopportabile, donde la necessità di compensare e rivestire questo vuoto con una fabula che ne smorzi il potenziale distruttivo e disgregativo, trasfigurandolo in racconto mitologico ("Don't let it be forgot/That once there was a spot/For one brief, shining moment/That was known as Camelot", recita il refrain del brano tanto amato dal compianto marito). Dal vuoto reale della morte alla pienezza consolatoria del mito favoloso, passando per la vischiosità dell'ossessione iconica: ecco la parabola tracciata con limpido rigore disegnativo da Larraín. Messa in scena che nevrotizza, aggiornandoli, i parametri stilistici della regia televisiva americana anni '60 (l'impressione di trovarsi in una sorta di TV show impazzito è suscitata dalla frontalità, dalla secchezza e dalla frammentazione del dettato visivo), commento musicale sinuosamente dissonante di Mica Levi (le riconoscibili frenate sonore della compositrice britannica si aprono gradualmente ad ariose vibrazioni di fiati e archi) e interpretazione di necrofilo mimetismo di Natalie Portman, che nell'epilogo stringe guantata il suo John/Jack, danzando beatamente tra le sue braccia, quelle di un cadavere squisito. Continuamente sospesa tra questo corpo e la scena.

Già pubblicata su www.spietati.it.

venerdì 31 marzo 2017

AQUARIUS

 


"Clara è un critico musicale e vive in un piccolo palazzo degli anni Quaranta chiamato "Aquarius", che si affaccia sullo splendido lungomare di Recife. Una compagnia immobiliare ha già acquistato tutti gli appartamenti dell'edificio per farne un grattacielo di lusso, ma Clara è decisa a non cedere la casa a cui è legata dai ricordi di una vita. Dopo i primi approcci amichevoli, gli speculatori ingaggiano una vera e propria guerra fredda con la donna, in un crescendo di violenza psicologica: abituata da sempre a combattere, Clara non ha però intenzione di arrendersi, neanche davanti all'ultima, sconvolgente minaccia" (dal pressbook). 




Fortemente ostacolato e al contempo sopravvalutato per motivi di carattere politico (non soltanto per la plateale protesta cannense contro la destituzione di Dilma Rousseff, ma anche per la presenza nel film di tematiche politicamente connotate), Aquarius rappresenta, al di là di questi aspetti concomitanti, il lavoro più emblematico di Kleber Mendonça Filho. Regista con burrascosi trascorsi da critico, Mendonça Filho (classe 1968) ha concepito nel corso del tempo un universo cinematografico che, frequentando varie forme e formati audiovisivi (VHS, Betacam,DV, HD, 35mm) senza stabilire nette divisioni tra loro, ruota immancabilmente attorno alla città brasiliana di Recife. Un microcosmo deliberatamente ingabbiato che, come recita il titolo del primo cortometraggio che lo ha reso voce di rilievo nel panorama brasiliano (Enjaulado, 1997), gravita intorno a ossessioni ricorrenti: l'insicurezza intrisa di paranoia, la diffusione del terrore fin dall'infanzia (A Menina do Algodão, 2003), il regime mutilante delle prescrizioni domestiche (Vinil Verde, 2004), la repressione sessuale (Eletrodoméstica, 2005), le sconcertanti mutazioni ambientali (Recife Frio, 2009), la mania del controllo fomentata dalle disuguaglianze sociali (O Som ao Redor, 2012) e le surreali aberrazioni urbanistiche dettate dalla virulenza delle logiche economiche (A Copa do Mundo no Recife, 2015).

I miei film contengono degli elementi ricorrenti, dei motivi che circolano. Ma a un certo momento ho avuto voglia di uscire da casa mia dove sono stati girati tutti i miei primi film, ivi compreso Vinil Verde che oggi è un classico del cortometraggio brasiliano. Filmare nella strada (Kleber Mendonça Filho).

Ebbene, questo universo accanitamente “recifecentrico” trova in Aquarius il suo coronamento e il suo perno gravitazionale ultimo. Nella figura di Clara (Sonia Braga), donna sessantenne assediata e insidiata da una spregiudicata compagnia immobiliare che intende demolire la sua abitazione per rimpiazzarla con un lussuoso grattacielo, si fondono insieme tre componenti strutturali del cinema di Mendonça Filho: l'analisi particolareggiata di un personaggio cocciuto e tutt'altro che accondiscendente, l'identificazione della protagonista con l'edificio che custodisce la sua storia e, infine, l'inseparabilità del soggetto dal luogo che oggettiva affettivamente la sua esistenza. Difficile non riconoscere in questa triplice alleanza tra individuo, storia e spazio affettivo un autoritratto per interposta Sonia Braga dello stesso Mendonça Filho: ostinatamente aggrappato alla sua città natale, il regista pernambucano rivendica con Aquarius, film radicale se mai ve n'è stato uno, un'indipendenza irriducibile e non negoziabile, incidendo sul corpo della sua protagonista (non a caso critico musicale, proprio come lui è stato critico cinematografico) i segni di un passato tanto vulnerato quanto vittorioso (la guarigione dal cancro al seno che le è costata l'asportazione della mammella destra). In questo senso l'imperfezione estetica si dà a leggere fin troppo facilmente come cicatrice di vitalità e indisponibilità al compromesso: segno di gloria imperfetta che testimonia l'irriducibilità a uniformarsi, anche se questo comporta un minor potere di seduzione (l'episodio dell'uomo che si ritrae subito dopo aver saputo della sua operazione chirurgica). Una donna e un cinema senza plastica e trucchi cosmetici, insomma, ma irriducibilmente personali, combattivi e vitali.

Avevo un tavolo di montaggio VHS a casa mia, con un monitor in bianco e nero. Ho realizzato numerosi video a piccolo budget. Uno di questi tratta della demolizione di una casa: Paz a Esta Casa. Il film è del 1994 e dura un minuto. Conoscevo la famiglia che viveva lì. Il film realizzava una predizione oscura su ciò che poteva succedere a questa casa. La famiglia era assai contrariata. Ma 23 anni più tardi la mia oscura predizione si è avverata. È allora che ho avuto l'idea di Aquarius.

"Doña Clara c'est moi" sembra dunque essere il motto che attraversa in filigrana l'intero film: intervistata da due giovani giornaliste, Clara ostenta nei confronti dei supporti di registrazione e riproduzione musicale (vinili, cassette, MP3, streaming) la stessa apertura e la stessa disinvoltura che hanno contraddistinto la produzione audiovisiva di Mendonça Filho negli anni '90 ("Ho utilizzato più o meno tutti i formati video esistenti negli anni '90: Betacam, Super VFIS, VHS, Super 8, 8 mm video, U-matic"). Secondo lungometraggio cinematografico del regista di Recife dopo O Som ao Redor (Neighboring Sounds, 2012), Aquarius è del resto un film in cui la rappresentazione di sé attraverso segni tangibili e visibili costituisce inequivocabilmente l'elemento dinamico della vicenda: i dischi, i libri, le fotografie e i mobili che costellano l'abitazione di Clara non sono soltanto oggetti di arredo domestico, ma contenitori di storie, "messaggi in bottiglia" (come illustra Clara alla confusa intervistatrice, riferendosi all'album Double Fantasy comprato in un negozio di dischi usati a Porto Alegre). Questi "oggetti speciali" (altra definizione di Clara) sono custodie di memoria, scrigni che racchiudono il passato personale e familiare: si pensi al mobile della settantenne zia Lucia (Thaia Perez), vera e propria macchina del tempo che catapulta il film dal 1980 del prologo ai momenti in cui la stessa Lucia, usandolo come supporto erotico, faceva l'amore col suo amante decenni prima. Ovviamente questo mobile, ormai divenuto emblema di una femminilità attiva e indipendente in virtù delle connotazioni acquisite, non potrà mancare nella casa di Clara.

Inizialmente volevo filmare il caos urbano di Recife: prolungare O Som ao Redor, ma stando meno nell'osservazione e più nell'azione. Cosa succede quando una cosa, benché molto bella, è giudicata inadeguata e superata in una società? […] Succede la stessa cosa sul piano del paesaggio urbano in Aquarius. Verso la fine del film si vede in campo lungo questa donna molto sottile che torna dal droghiere tra edifici immensi. Sembra non avere niente a che fare con la strada, così inospitale per i pedoni.

Ma se Doña Clara è un ritratto di Mendonça Filho per interposta protagonista, essa, come osservato in precedenza, fa anche corpo con l'edificio in cui vive. Anzi, la stessa esistenza di Clara è letteralmente indissociabile dall’Aquarius ("Me ne andrò da qui solo morta!", tuona al giovane imprenditore Diego in uno degli scambi più accesi del film). Pur essendo la sola ad abitare nell'edificio in predicato di demolizione, lei ne incarna la memoria storica (non è fortuito che l'Aquarius abbia sessant'anni, la sua stessa età), ne rappresenta il cuore indomito e la linfa vitale (anche la riverniciatura della facciata da bianca a blu è segno di questa vitalità inesausta): se l'Aquarius costituisce il corpo architettonico di Doña Clara, Doña Clara rappresenta il documento vivente dell'Aquarius. In questa circolazione di identificazioni (Mendonça Filho/Clara/Aquarius) nella quale la rappresentazione esprime e documenta totalmente l'esistenza, l'attacco erosivo sferrato dalla compagnia Bonfim con l'infestazione di termiti riproduce vistosamente nel corpo dell'edificio la patologia cancerosa (la ragnatela di tunnel come diffusione di metastasi) che Clara ha conosciuto sul proprio corpo ("Sono sopravvissuta a un cancro, più di 30 anni fa, sapete? Ultimamente ho riflettuto su una cosa. Preferisco far prendere un cancro a voi, piuttosto che averlo io", sibila Clara prima di rovesciare sul tavolo della compagnia Bonfim le tavole di legno infestate di termiti).

Questo finale opera a più livelli. Può sembrare ottimista o totalmente pessimista. Ma i primi piani finali sono molto inquietanti, lo so bene… Con delle termiti tutti i documenti della vostra vita spariscono. Distruggono tutti i documenti di questa famiglia.

Ma è proprio a causa di questa dimensione di apologo emblematico che, alla luce delle considerazioni precedenti, Aquarius si rinchiude scientemente in un'idea di piacere cinefilo totemico, chiuso su se stesso e autolegittimante, sacrificando l'ambiguità potenziale delle immagini sull'altare dell'evidenza totale (Mendonça Filho: "Il vero piacere cinefilo è quando incontrate il cineasta e vi dite che un'evidenza lo lega al suo film: il film lo esprime totalmente"). In questa idea di film come documento rappresentativo e certificato biografico del cineasta, insomma, il cinema si tramuta in ufficio anagrafe e riserva protetta, habitat cinefilo in cui crogiolarsi in una visione ingabbiata e tre volte riflessa. Tutto è segno in Aquarius, segno che Aquarius è un tutto: un microcosmo a tenuta stagna dal quale non trapela una sola goccia incontrollata. Cullante illusione di consistenza.
Le dichiarazioni di Kleber Mendonça Filho contenute nella recensione sono ricavate e tradotte dall'intervista rilasciata a Élise Domenach pubblicata su "Positif" col titolo Se sentir proche d'un film, c’est une chose très belle (n.668, ottobre 2016, pp. 25-29). 
Ringrazio Luca Pacilio per la segnalazione dell'interessante intervista.

Già pubblicata su www.spietati.it.