sabato 12 novembre 2016

UN CONDANNATO A MORTE È FUGGITO

 


Lione, 1943. Accusato di spionaggio e preparazione di un attentato, il tenente Fontaine è imprigionato in un carcere controllato dalle forze di occupazione tedesca dopo un disperato tentativo di fuga. Condannato alla fucilazione, Fontaine escogita un piano di evasione servendosi dei pochi mezzi che la situazione gli mette a disposizione: un cucchiaio, del fil di ferro, coperte, ganci fabbricati con la cornice della lanterna. E, soprattutto, facendo affidamento sulla sua inflessibile volontà.






Un uomo e una porta

 

 Il reale di cui i film di Bresson recano testimonianza non è deducibile che dalla messa in scena. Che questa percezione sia stata l'oggetto di una ricerca, di un brancolamento che ha condotto a stabilire un sistema singolare, questo è noto e Un condannato a morte è fuggito ne segna senza dubbio la rottura. […] Il Condannato, precisamente, è la prima pellicola di Bresson che utilizza sistematicamente gli elementi - firma se vogliamo - che sono il marchio dei suoi film: frammentazione dello spazio, non-attori, meccanizzazione della recitazione e della dizione…
Philippe Arnaud,"Robert Bresson".

Un film su un uomo e una porta: ecco che cos'è Un condannato a morte e fuggito. In questa porta che separa Fontaine dal primo spiraglio di libertà si materializza il caso inteso come coincidenza e destino: l'accidente e il senso. Per raggiungere la libertà ventilata dall'aria che s'intrufola nella finestra della sua cella ("Il vento soffia dove vuole"), Fontaine deve innanzitutto misurarsi con questa barriera di legno che lo porterà ancora di più all'interno del carcere, nelle sue ignote anfrattuosità ("Il fallait que cette porte s'ouvre, je n'avais rien prévu pour après"; "Occorreva che questa porta si aprisse, non avevo previsto niente per dopo"). Per conquistare l'aria, deve sprofondare nell’orizzonte interno delle cose, spingersi nell'ignoto. Disperato e disilluso ("Non mi facevo alcuna illusione sulla sentenza"), Fontaine deve al caso e all'inoperosità la sua prima intuizione evasiva ("Fu per un caso che riuscii a fare il primo passo verso la libertà"): seduto davanti alla porta, non avendo nient'altro da fare che posarvi lo sguardo, si accorge che l'interstizio tra le tavole di quercia è di un legno diverso, più tenero e intaccabile ("Sicuramente esisteva il modo di smontare la porta"). Inizia così la sua lotta implacabile contro gli ostacoli che lo separano dalla libertà.

Ma ciò che Fontaine opera sulla porta non è troppo dissimile dal gesto cinematografico che Bresson compie sulla compattezza della realtà: inciderla, frammentarla e ricomporla per raggiungere una dimensione ulteriore. Manomettere la realtà per scassinarla e raggiungere l'ignoto, il mistero. Pazientemente: con un lavoro di scomposizione e ricomposizione che non mostri i segni della manomissione se non in quanto indizi impercettibili, tracce appena visibili. Impalpabili. È un lavoro nel quale la ricomposizione della superficie scheggiata (non è forse, quella di Fontaine, una montatura che rievoca il montaggio?) comporta una cura tanto attenta e premurosa quanto la scomposizione preliminare: "Ce qui me prenait beaucoup de temps c'était la remise en place et le camouflage" ("Ciò che mi prendeva molto tempo era la ricomposizione e la mimetizzazione"). In questa volontà inflessibile si fondono intenzioni e gesti del prigioniero Fontaine e del cineasta Bresson: uomini che, per raggiungere una dimensione negata dalla realtà, smontano e rimontano la materia prima, ognuno con i mezzi ridotti che questa stessa realtà, accidentalmente, mette a loro disposizione.

Ecco precisarsi con argenteo rigore l'«anti-sistema» di Bresson: suggerire, per via d'immagini allusive, l'orizzonte interiore del mondo, ciò che avviene tra le cose. Si tratta di una strategia quasi militare ("Cinématographe, art militaire. Préparer un film comme une bataille", Note sul cinematografo): accerchiare ciò che non è immediatamente o direttamente figurabile attraverso un'attitudine privativa che sottragga la visione integrale dello spazio e degli eventi. Una forma ablativa di rappresentazione che fa dell'assenza il suo centro gravitazionale: ciò che non vedi è quello che conta, è lì che risiede il mistero. Il cuore dell'azione scompare (la prima sequenza del film lo annuncia a chiare lettere), inghiottito dall'enigma che cela e rivela al contempo: il procedimento metonimico (la parte per il tutto o la sostituzione della causa con l'effetto) ne è il precipitato estetico. Nel vuoto, la verità infigurabile.

Sarebbe inutile e scriteriato tentare di dire qualcosa di nuovo su un film di cui è stato già detto tutto (per le informazioni di prammatica rivolgersi altrove, grazie). Ciononostante, mi preme mettere in luce un aspetto paradossale che mi ha profondamente colpito durante l'ennesima revisione di questo capolavoro (per una volta l'abusato termine ritrova la sua luminosità): il quarto lungometraggio di Bresson, di cui onoriamo qui i sessanta anni dalla sua uscita nelle sale francesi, dimostra con adamantina chiarezza che per raggiungere la verità (l'evocazione del segreto dell'essere attraverso la menzogna di ciò che appare ma non è) occorre un costante e inesorabile sforzo di falsificazione. In Un condannato a morte è fuggito tutto è all'insegna dell'impostura: si pensi alla falsa innocenza dei prigionieri di fronte allo sguardo dei sorveglianti (l'apparente docilità dei detenuti nasconde una febbrile attività clandestina), alla falsa staticità (una miriade di microeventi brulica nel film, mettendo lo spettatore in un ininterrotto stato di allarme), alla falsa appartenenza del film al genere carcerario (la prigionia di Fontaine non è che un pretesto per parlare della reclusione esistenziale di ogni essere umano), alla falsa impronta fenomenologica (la forte frammentazione della continuità smentisce di fatto il postulato dell'oggettività) e, infine, alla falsa letterarietà (il sapore distintamente letterario della voce narrante di Fontaine non intacca la disadorna austerità dell'arrangiamento visivo). Ciò che appare attiene alla menzogna, insomma, e il suo solo compito è quello di evocare la dimensione del segreto: l'essere implica il non apparire. E il cinema di Bresson perseguirà sempre più radicalmente, da Pickpocket (1959) in poi, titolo sottrattivo se mai ve n'è stato uno, questa rapina del visibile a esclusivo vantaggio dell'essere. Perché vedere tutto significa mancare la pungente intensità delle cose.

Qualche giorno fa, traversando i giardini di Notre-Dame, incrocio un uomo i cui occhi colgono dietro di me qualcosa che io non posso vedere e s'illuminano d'improvviso. Se, contemporaneamente all'uomo, avessi visto la giovane donna e il bambino verso i quali si mise a correre, quella faccia felice non mi avrebbe tanto colpito; forse non ci avrei nemmeno fatto caso.
Robert Bresson, "Note sul cinematografo".


Nota sul doppiaggio

 

Non saprei dire con esattezza quante versioni di questo film abbia visto (probabilmente intorno alla dozzina), ma di una cosa sono certo: vedere Un condamné à mort s'est échappé in originale costituisce un'esperienza totalmente diversa rispetto alla versione doppiata. Oltre alle consuete alterazioni linguistiche che ogni traduzione comporta e oltre all'inevitabile perdita del carattere macchinico della dizione così cruciale in Bresson, in questo caso assistiamo ad altri due fenomeni letteralmente aberranti. In primo luogo è anche la sintassi del testo originale a subire plateali distorsioni e omissioni: giusto a titolo di esempio, "Durant l'attente, dans la cour, je m’étais habitué à l'idée de la mort. J'aurais préféré une exécution immediate" diventa "Abituarsi alla morte… Ero così vicino alla fine da desiderarlo". In secondo luogo, soprattutto, è l'assedio costante dei rumori del carcere, un vero e proprio traffichio persecutorio, a ridursi ad amorfo e smorzato rumore di fondo. E così questo concerto per cucchiaio, chiavi e fil di ferro in do minore si tramuta in un film in sordina.

Pubblicata su www.spietati.it.

venerdì 14 ottobre 2016

FRANTZ

 




Al termine della Prima guerra mondiale, in una cittadina tedesca, Anna si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Frantz, morto al fronte in Francia. Un giorno incontra Adrien, un giovane francese anche lui andato a raccogliersi sulla tomba dell'amico tedesco. La presenza dello straniero nella cittadina tedesca susciterà reazioni sociali molto forti e sentimenti estremi (dal pressbook). 






Presentato in concorso alla 73ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Premio Marcello Mastroianni a Paula Beer per la miglior attrice emergente.
Distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 22 settembre 2016.

I - Premessa autoreferenziale: il principio vitale della metamorfosi 


Nel secondo numero di INLAND. Quaderni di cinema, ho tentato di individuare ciò che, semplificando quel tanto che basta a rappresentarsi le cose, ho definito l'"elemento ozoniano", vale a dire quell'elemento capace di assumere la posizione di fulcro nell'intero cinema di François Ozon, assicurando all'insieme dei suoi film un'organizzazione dinamica e singolare. Mi permetto di rimandare spudoratamente al contributo di INLAND poiché lì passo in rassegna la sua intera filmografia alla luce di questo ipotetico elemento fondamentale (cosa che mi asterrò scrupolosamente dal fare in questa sede). Mette comunque conto riportare sinteticamente l'ipotesi formulata in quel breve saggio, perché di fatto è la stessa che orienta le seguenti riflessioni. In La pelle e la traccia: riscritture del sé. Il cinema trasformazionale di François Ozon ipotizzo dunque che questo fatidico elemento risieda nell'esigenza di cambiare continuamente pelle, mantenendo come traccia permanente la riscrittura dell'identità: "Non una variazione sul tema identitario condotta con sguardo immutabile, ma una dialettica che impegna e investe lo statuto dello stesso sguardo: l'epidermide muta di pellicola in pellicola, la traccia persiste nella metamorfosi stessa". Nel cinema di Ozon, insomma, ogni pellicola (alla lettera "piccola pelle") non farebbe che ripeterci questo: l'identità resta florida solo a condizione di mutare, il suo nucleo vitale non coincidendo affatto con l'unità definitiva e difensiva ma, al contrario, con la trasformazione permanente. Questo, in estrema sintesi, quello che ritengo essere l'elemento specifico, originario e semplicemente irrinunciabile del suo cinema, elemento che a mio avviso trova compiuta incarnazione in Ricky, infante alato nel quale convergono, facendo e facendosi corpo, i tratti di un'identità rigogliosa poiché libera di dispiegare le marche della differenza e quelli di un cinema che della metamorfosi ha fatto un vero e proprio principio vitale.

Osservato da questa angolazione, il radicale del cinema di Ozon coinciderebbe quindi con la mutazione pellicolare e, al tempo stesso, con l'identità come trasformazione, movimento continuo, plasticità dinamica. Ovviamente non si tratta del cencioso concetto di adattamento (il che trascinerebbe l'intero discorso sul versante del conformismo), ma, più precisamente, della necessità di non lasciarsi intrappolare dal protocollo affettivo ricevuto e assumere soggettivamente, riscrivendolo, il destino già programmato per ciascun individuo dal complesso di norme e istituzioni sociali (la famiglia in primo luogo). Tuttavia, lo ripeto, questo movimento non interessa soltanto i personaggi messi in scena di film in film, ma coinvolge lo stesso dispositivo cinematografico di Ozon, sottoponendolo a torsioni, deformazioni e riconfigurazioni ininterrotte (è una cosa che Melvil Poupaud ha detto con invidiabile essenzialità: "Gira molto e cambia stile ogni volta, restando personale al tempo stesso"). Questa esigenza trasformazionale è così irrinunciabile da aver portato Ozon a concepire persino il "film-mix" Quand la peur dévore l'âme (2007), ibrido intertestuale creato con la libera combinazione di parti di Secondo amore (Douglas Sirk, 1955) e La paura mangia l'anima (Rainer Werner Fassbinder, 1974). Mi pare assolutamente evidente che questo mediometraggio inveri formalmente il principio vitale della poetica ozoniana: plasmare nuove identità a partire dalla riconfigurazione di quelle ereditate.


II - Spostamento del punto di vista: condividere l'inconsapevolezza

 

Ebbene, questo movimento di riappropriazione e soggettivazione è esattamente quello che permea Frantz, film liberamente ispirato a L'uomo che ho ucciso (Broken Lullaby, 1932) di Ernst Lubitsch - pellicola a sua volta basata sulla pièce teatrale L'Homme que j’ai tué di Maurice Rostand. Il rapporto coi lavori di Rostand e Lubitsch è molto simile a quello che contraddistingue Quand la peur dévore l'âme: pièce e pellicola vengono assunti come testi da rispettare esteriormente e riscrivere intimamente. Ne scaturisce una sorta di palinsesto che si nutre delle raschiature e delle interpolazioni imposte soggettivamente alla materia di partenza. La ripresa soggettiva di Broken Lullaby si compie infatti all'insegna di uno stravolgimento plateale: il ribaltamento del punto di vista dominante. Se il lavoro teatrale di Rostand e la pellicola di Lubitsch sposavano il punto di vista del protagonista maschile, Ozon sposta il baricentro emotivo e cognitivo sullo sguardo della fidanzata del soldato tedesco ucciso in trincea. Lo spostamento del punto di vista induce una profonda riconfigurazione della materia di partenza, poiché, pur mantenendo la tela narrativa di fondo (ambientazione storica e dinamiche drammaturgiche di base), l'adozione del nuovo angolo visuale comporta un posizionamento dello spettatore radicalmente differente: non più una posizione onnisciente e trepidante per il senso di colpa provato dal giovane francese che si reca in Germania per piatire il perdono, ma una condizione di inconsapevolezza e curiosità condivisa con la protagonista femminile che ha perso il fidanzato in guerra. In termini narratologici, ci troviamo in una situazione di focalizzazione interna, ovvero sappiamo soltanto ciò che sa Anna (Paula Beer) e ogni sua acquisizione cognitiva coincide con un nostro passo in avanti verso la scoperta della verità. Il desiderio di Ozon, come espresso dalle dichiarazioni contenute nel pressbook, si concentra fondamentalmente su questo nuovo orientamento narrativo: "il film di Lubitsch (…) è molto simile allo spettacolo teatrale e adotta lo stesso punto di vista, quello del giovane francese. Il mio desiderio invece era di adottare il punto di vista della ragazza che, così come lo spettatore, non sa perché quel giovane francese si reca sulla tomba del suo fidanzato".

È fin troppo semplice rilevare come questa dislocazione del punto di vista scateni l'attività congetturale dello spettatore. Detto più semplicemente, lo spettatore, privato dell’onniscienza di cui godeva nella pièce di Rostand e nella pellicola di Lubitsch, si trova costretto a formulare ipotesi sulla reale identità di Adrien (Pierre Niney) e sulla relazione che questo sconosciuto aveva con Frantz (Anton von Lucke). Chi è questo giovane francese spuntato dal nulla? Quale rapporto lo lega a Frantz? Perché è così ossessionato dalla memoria del defunto? Tutte queste domande non hanno luogo in Broken Lullaby, dal momento che lo spettatore sa fin dall'inizio che Paul (questo il nome del soldato francese nel film di Lubitsch) ha ucciso l'imbelle Walter in trincea (donde l'eloquente titolo L'uomo che ho ucciso). Insomma, in Frantz non è più la colpevolezza del soldato francese a menare le danze e costituire il nucleo emotivo della vicenda, ma l'inconsapevolezza equamente condivisa tra Anna e lo spettatore. Ed è proprio questa condizione d'inconsapevolezza condivisa a creare i presupposti di quella metamorfosi identitaria che, come abbiamo visto, costituisce il principio vitale del cinema di Ozon: è solo sulla base di questa incertezza che può svilupparsi la disponibilità all'apertura e alla trasformazione soggettiva. In palio c'è qualcosa di molto più cruciale del semplice intrattenimento: lo spostamento del punto di vista non risponde soltanto all'accrescimento del mistero intrigante, ma, soprattutto, all'allestimento di un teatro interiore propizio al dispiegamento della metamorfosi. Una metamorfosi che, naturalmente, investirà in primo luogo l'identità della protagonista, ma che, grazie alla centralità del suo punto di vista, coinvolgerà indirettamente e provvisoriamente (quanto meno per la durata della visione) anche quella dello spettatore.


III - Il movimento come materializzazione del percorso di trasformazione

 

È il movimento, in effetti, a rappresentare l'aspetto più appariscente di Frantz, un movimento che dapprima interessa la sola Anna, ma che, per interposta protagonista, finisce per contagiare lo spettatore: nel movimento del personaggio vediamo materializzarsi il suo stato e le sue potenzialità dinamiche, immedesimandoci nel suo percorso fisico e psicologico. Non è affatto fortuito che il film si apra sulla camminata della ritrosa Anna per le strade, i vicoli e le scalinate (elemento dinamico tutt'altro che secondario nel cinema di Ozon, basti pensare alla rilevanza scenografica della scala in 8 donne e un mistero) della cittadina tedesca di Quedlinburg. In questo silenzioso e solitario tragitto, non a caso completamente assente nel film di Lubistch in cui una dissolvenza incrociata elide classicamente il percorso dal negozio di fiori al cimitero, ci mettiamo in cammino insieme al personaggio, osservando il suo disinteresse per gli uomini che la guardano, interrogandoci sulla sua condizione, ipotizzando gli sviluppi futuri della vicenda. È del resto lo stesso Ozon a sottolineare l'importanza di questo incipit itinerante: "Mi piace molto riprendere i tragitti percorsi, è un modo concreto di materializzare l'idea del movimento dei personaggi e di mettere il film e i protagonisti in un luogo geografico. Era importante mostrare quella cittadina tedesca, quei tragitti dalla casa al cimitero, e poi fino alla Gasthaus. Guardare quel tragitto è interrogarsi sul personaggio, capire il suo percorso. All’inizio Anna è un po' ferma, gira su se stessa in questa cittadina. Per poi affrontare il grande viaggio che la porterà in Francia e la farà andare oltre le apparenze".

Ed è un indizio altrettanto rivelatorio il fatto che l'epilogo di Frantz sia scandito da un'altra camminata della protagonista, ma di senso diametralmente opposto a quello luttuoso e rassegnato dell'incipit: stavolta siamo al Louvre e Anna, di nuovo Giovane e bella (è stata la madre, spronandola a partire per Parigi, a sussurrarle "sei giovane e bella, non perdere questa chance!"), percorre i corridoi del museo con passo sicuro e spregiudicato, finalmente consapevole e disponibile all'incontro con l'altro (il dialogo conclusivo davanti al quadro di Manet ha quasi il sapore di un abbordaggio). Tuttavia non si tratta soltanto di emancipazione femminile, ma, più ampiamente, di trasformazione sentimentale, apertura all'esistenza. Ancora Ozon: “La sceneggiatura del film è costruita come un Bildungsroman, come un romanzo di formazione. Non ci conduce in un mondo di sogni o di evasione ma segue l'educazione sentimentale di Anna, le sue disillusioni riguardo alla realtà, alla bugia, al desiderio, alla maniera di un racconto iniziatico". Tra l'incipit chiuso nel dolore funereo e il finale aperto alla voglia di vivere ("Il me donne envie de vivre", dice Anna guardando il dipinto Le Suicidé) c'è l'incontro con Adrien, palese doppio di Frantz, c'è l'azione consolatoria della menzogna da lui avallata e, soprattutto, c'è la diversa piega che l'elaborazione del lutto prende per i due protagonisti. Momentaneamente ravvivato dalle bugie di Adrien, il romanticismo di Anna viene soffocato dalla scoperta della verità (le colorite passeggiate nella natura, ispirate alla pittura romantica di Caspar David Friedrich, perdono all'improvviso ogni umore cromatico). E se Adrien si rifugia vigliaccamente nell'abbraccio letale della famiglia, Anna non si lascia abbattere dalle disillusioni incassate a ripetizione, trovando al contrario, nell'acquiescenza del giovane francese, uno stimolo a cercare la propria indipendenza al di fuori della confortevole e mortale cornice domestica. Detto altrimenti, Adrien sopravvive fisicamente alla guerra in trincea e muore sentimentalmente tra le quattro mura della sua lussuosa dimora (il matrimonio programmato dalla madre con Fanny/Alice de Lencquesaing); mentre Anna, tentato il suicidio nelle fredde acque di un lago sassone per la disperazione, rinasce a nuova vita proprio dopo aver assaporato fino in fondo il veleno delle costrizioni familiari e averne osservato gli irreversibili effetti su Adrien (l'ultimo dialogo con la di lui perfida madre/Cyrielle Clair).


IV - Metamorfosi e suicidio: cambiare o morire

 

Tutto ciò ci riconduce, a posteriori, al principio della metamorfosi. Mi pare difatti che Frantz, analogamente e antiteticamente a Il tempo che resta, porti alle estreme conseguenze il discorso della trasformazione come questione di vita o di morte. Se il film del 2005 ci mostrava che persino la morte imminente poteva rappresentare un'occasione di apertura al cambiamento (il titolo del film fa pensare non solo al tempo che resta da vivere nella vita di un uomo, ma anche al tempo che rimane davvero della sua vita), Frantz ci mostra che l'ombra della morte può cadere sul soggetto in vita, perfettamente sano e con molti anni davanti a lui. In altri termini, se Il tempo che resta mostrava l'apertura alla vita perfino nella morte annunciata, Frantz mostra inversamente la chiusura mortale nella vita agiata. Con Frantz, insomma, ci troviamo di fronte alla formulazione definitiva delle conseguenze derivanti dall'incapacità di trasformarsi, dalla riluttanza nell'abbracciare il percorso della metamorfosi: rinunciare alla trasformazione equivale a una condanna a morte, al suicidio o alla morte in vita (che, in fondo, è esattamente la stessa cosa). E sono proprio i due tentati suicidi di Frantz a suggerire cinematograficamente questa equivalenza: nel momento in cui le possibilità di cambiamento appaiono sbarrate (Anna ha scoperto la menzogna di Adrien; Adrien è tornato in Francia con la coda tra le gambe), entrambi i personaggi provano a farla finita. Ma se Anna viene salvata dall'inopinato soccorso di un passante e, nonostante l'amarezza del disincanto, ritrova lentamente il desiderio di vivere (i genitori di Frantz e il confessore in questo senso favoriscono il suo recupero), Adrien, benché scampato al tentato suicidio, muore virtualmente rinunciando a spezzare la lapidaria linea familiare (quello di Adrien è fin troppo emblematicamente un destino di morte, le sue iniziali incise sulla tomba dello zio colonnello sanciscono per metonimia che il suo slancio vitale è ormai morto e sepolto). Non è pertanto fortuito che sia il solo tentato suicidio di Anna a essere rappresentato integralmente, mentre quello di Adrien è ricostruito per via indiziaria attraverso consultazioni di medici, registri clinici e, infine, testimonianze dello stesso giovane. È proprio questa mancata rappresentazione, che ovviamente non risponde a esigenze di sintesi (una breve scena dell'atto avrebbe occupato molto meno tempo della lunga e fuorviante indagine di Anna), a segnalarne tutto il peso specifico: affidando alla ragazza tedesca il ruolo attivo e ostinato di detective, il film allude al fatto che Adrien sia ormai un residuo passivo, un morto vivente sepolto in una tomba non meno marmorea di quella in cui è tumulato lo zio, il castello di famiglia. Nella ricerca dello scomparso Adrien (non suona più nell'orchestra, non è più ricoverato nella clinica psichiatrica, non è più a Parigi), Anna non ha fatto che passare da una tomba all'altra, da un sepolcro all'altro. E se lei continua a muoversi e cambiare, Adrien, ormai condannato a deperire comodamente, ha letteralmente smesso di farlo: "È troppo tardi", gli dice piangendo e dandogli un bacio in extremis mentre il suo treno per Parigi è sul punto di partire.

Azione castrante della madre di Adrien e morte in vita di quest'ultimo, funzione emancipatoria dei genitori di Frantz e del confessore e, infine, movimento/mutamento liberatorio di Anna: il quadro d'insieme sembrerebbe completo. Ma di fatto manca un dettaglio fondamentale: perché il film s'intitola Frantz anziché "Anna", "Anna e Adrien" e via ipotizzando? Quale posizione occupa il giovane tedesco ucciso ancor prima dell'inizio del film? In primo luogo, il suo ruolo di assente onnipresente non è troppo dissimile da quello rivestito dalle figure maschili nella celebre commedia Donne (The Women, 1939) di George Cukor: pur essendo rigorosamente esclusi dalla scena tutta al femminile, gli uomini sono i protagonisti assoluti dei dialoghi e delle dinamiche rappresentate. In virtù della sua assenza fisica, insomma, Frantz acquisisce una presenza drammaturgica così ingombrante da farsi chiodo fisso, ossessione inestirpabile: la replica di Anna alla madre di Adrien al termine del dialogo di congedo - "Non sono io che tormento suo figlio, signora, è Frantz" - esplicita definitivamente l'onnipresenza di questo fantasma aleggiante su tutto il film. In secondo luogo, di gran lunga più decisivo del primo, Frantz riassume esemplarmente in sé i tratti dell'auctor in fabula, non soltanto rivestendo il ruolo di doppio fantomatico di Adrien (col violino a fare da sonante oggetto mediatore tra i due), ma, soprattutto, assumendo a pieno titolo la funzione registica. Detto in termini più brutali, Frantz rappresenta lo stesso Ozon all'interno del film. Non è solo l'ovvia concatenazione lessicale "Frantz>Französisch>Français>François" a suggerire questa assimilazione, ma, meno banalmente, il suo agire nell'ombra e il suo palesarsi nel riflesso di Adrien. Che cosa fa Frantz oltre a morire in trincea e ossessionare i personaggi con la sua assenza? Scrive una lettera che funziona come una sceneggiatura, elegge Adrien a suo sostituto in una sorta di casting suicida e, dettaglio letteralmente determinante, vigila sornione sull'intera vicenda. È lui che, in albergo, occhieggia dall'altra parte dello specchio stabilendo una complice intesa con Adrien, complicità che suona distintamente come un'investitura ufficiale. È il suo sguardo a oggettivarsi virtualmente nei punti macchina: durante il primo pranzo in casa Hoffmeister, la camera inquadra la scena dalla prospettiva che nel film di Lubitsch era occupata dalla sedia vuota del giovane caduto, il "posto del morto". Sceneggiatore fantasma, occulto artefice del casting e benevolo promotore dell'incontro tra Anna e Adrien, Frantz è in definitiva l'autentico demiurgo che muove i fili dietro le quinte e che, in un estremo gesto di annichilimento a vantaggio della sua protegée, si suicida figuratamente e figurativamente per ridarle di nuovo “envie de vivre”. La metamorfosi si è compiuta, il bianco e nero funereo si è finalmente convertito in colore schioccante: Frantz/Adrien/François può definitivamente eclissarsi e fissarsi in pura immagine, ostacolo ormai estraneo alla gioiosa vitalità di Anna.

V - Postilla autoreferenziale: coazione a non ripetere

 

Al termine di questa smisurata celebrazione della metamorfosi, non posso fare a meno di interrogarmi brevemente sul limite più insidioso dell'intero discorso. Se è vero che il cinema di Ozon è rigorosamente anticonservativo (molto più che anticonvenzionale), è altrettanto vero che questo rigore ha qualcosa di programmatico e vagamente impositivo. La celebrazione del movimento trasformativo come fatto irrinunciabile non rischia forse d'irrigidirsi in norma tanto inderogabile e costrittiva quanto il protocollo notarile dal quale ci si vorrebbe smarcare? È questa ipoteca normativa ad apparirmi sempre più chiaramente come il limite interno (e nascosto) del suo cinema: in forma di domanda retorica, qual è la differenza tra coazione a ripetere e coazione a non ripetere?

Pubblicata su www.spietati.it.

mercoledì 5 ottobre 2016

ONE MORE TIME WITH FEELING







"One More Time With Feeling" documenta la registrazione del sedicesimo album in studio di Nick Cave & the Bad Seeds (Skeleton Tree), affrontando le ripercussioni intime della morte di Arthur, il figlio quindicenne di Nick Cave. 










Presentato Fuori Concorso al Festival di Venezia 2016 e uscito nelle sale italiane per due soli giorni (27 e 28 settembre), One More Time with Feeling avrà una nuova distribuzione nei cinema a partire dal primo dicembre.


I - La sostituzione della campagna promozionale

 

È stato Nick Cave a chiedere esplicitamente ad Andrew Dominik di realizzare un film che lo esentasse in qualche misura dall'esposizione pubblica e funzionasse come una sorta di un live show cinematografico, dispensandolo dall'incombenza della promozione del suo ultimo disco Skeleton Tree (ecco perché Cave non era a Venezia ed ecco perché i video del nuovo album sono veri e propri estratti del film). Insomma, One More Time with Feeling è a tutti gli effetti un film sostitutivo, un lavoro che sta per qualcos'altro: gli incontri con la stampa, la presentazione del disco, i concerti in giro per il mondo. Per il momento c'è il film al loro posto e già questa sostituzione dovrebbe farci drizzare le antenne: anziché qualcosa che avviene nella realtà e nel corso del tempo, abbiamo un sostituto cinematografico che condensa e rimpiazza tournée e campagna promozionale. I motivi per i quali Cave ha deciso di girare il film rivolgendosi proprio a Dominik sono numerosi e non starò certo a elencarli (basti menzionare la lunga amicizia tra i due, complice involontaria Deanna Bond, ex fidanzata di Cave e attuale compagna del regista). Ma tra questi almeno uno non può essere omesso, poiché, seppur universalmente noto, costituisce l'ostacolo inaggirabile della questione: la morte di Arthur, figlio quindicenne dell'artista australiano e fratello gemello di Earl, che compare a più riprese nel film. Così Dominik a proposito della dolorosa congiuntura attraversata da Cave: "When he realized he had to promote the record, the thought made him feel sick: talking to journalists, discussing Arthur. He didn't feel he could do it with strangers. The initial instinct for Nick was to protect himself, so he didn't have to answer questions. It becomes the only subject that there is, all the film is dealing with is Nick's grief feelings".

Come possiamo facilmente indovinare, alla funzione inizialmente alternativa alla promozione e all'esibizione pubblica si accompagna, complicandola, una funzione fortemente elaborativa e contenitiva. Sta di fatto che, a una prima occhiata, il dato più appariscente del film sembra consistere nella stratificazione, nell'accavallarsi e intrecciarsi di molteplici livelli compositivi: il bianco e nero quasi integrale, le esigenze di calibratura del 3D, i dialoghi con Warren Ellis, Cave, la moglie Susie e il figlio Earl, la messa a punto dell'arrangiamento per le incisioni, le esecuzioni musicali in studio, le liriche pronunciate in voce over da Nick, le riflessioni dello stesso Cave su frammenti del girato, le aperture ambientali su Brighton, Londra e così via. Si crea una gerarchia rigida tra i vari strati? Almeno in parte sì, impossibile non riconoscerlo, giacché la funzione performativo-promozionale è salvaguardata e solidamente eseguita: i brani di Skeleton Tree ci sono tutti, video inclusi (non dimentichiamo che Cave, come sottolineato da Dominik, ha finanziato il progetto personalmente: "Nick paid for the film out of his own pocket, and I would like for him to recoup his investment. It's basically to sell the record, that's the idea of the film"). Ciononostante, espletata la commissione promozionale, la stratificazione si svincola dalla gerarchizzazione dei livelli e genera una fertile confusione inclusiva che possiede due caratteristiche fondamentali: da una parte oggettiva cinematograficamente la necessità di prevenire l'effetto di spettacolarizzazione del dolore (la minaccia onnipresente del "grief porn") e, dall'altra, inscrive nel tessuto compositivo il processo ancora incompiuto dell'elaborazione del lutto, processo che, com'è noto, non può fare a meno dei tre requisiti del tempo, del dolore e della memoria (Arthur è morto nel luglio 2015 e i 10 giorni di riprese del film si collocano nel febbraio 2016, poco più di 6 mesi dopo il drammatico evento, ai quali si sono aggiunti successivamente alcuni frammenti girati in aprile).


II - Il mantello protettivo del 3D

 

Includere la confusione nel film diventa quindi doppiamente necessario: scongiurare l'oscenità del grief porn da un lato e, dall'altro, mostrare l'elaborazione del lutto in corso (il titolo One More Time with Feeling mi pare suggerire proprio questa idea di processo in cui il tempo dell'elaborazione non è ancora terminato, ma ha bisogno di un supplemento, un ulteriore lasso per compiersi a sufficienza). Non è del resto un mistero che Dominik abbia concesso a Cave e alla moglie Susie la facoltà di scartare dal montaggio finale le parti sgradite (un accordo dello stesso tipo lo vediamo stabilire all'interno del film con Earl, durante il primo incontro familiare nello studio di registrazione). Oltre a queste due caratteristiche fondamentali, la confusione inclusiva produce un altro effetto: la costruzione di un luogo astratto - o un non-luogo se preferiamo - la cui esistenza è squisitamente cinematografica (è vero che le riprese si sono svolte tra Londra e Brighton, ma i continui accavallamenti audiovisivi impediscono alla dimensione geografica di ancorare stabilmente le sequenze). Questo luogo astratto e squisitamente filmico ci avvicina al mantello affettivo di One More Time with Feeling, un mantello rappresentato sia da Warren Ellis che dalla tecnica di ripresa in 3D. Storico collaboratore di Cave e autentico collante dell'equilibrio collettivo, Ellis è non solo la figura che tiene insieme i pezzi (Cave lo dice a chiare lettere in una delle riflessioni in voice over), ma è anche colui al quale gli scontenti Nick e Susie hanno concesso l'ultima parola sul destino del film (Andrew Dominik: "Susie didn't like anything with her and Nick didn't like anything with him, but they liked each other. And so what they did was show it to Warren and he basically decided the fate of the film. Fortunately Warren liked it all, so it just got left alone").

Ebbene, la ripresa/visione in rilievo, fortemente suggerita per un film che nella dimensione spaziale ha la sua flagranza, possiede la stessa proprietà contenitiva e protettiva attribuita da Cave a Ellis: tiene insieme i pezzi in un abbraccio che non soffoca in una stretta apprensiva e che, pur assicurando coesione strutturale, non costringe le diversità in un ordine prestabilito. E, soprattutto, protegge l'intimità dei soggetti senza comprometterne la singolarità, anche quando questa coincide con una vulnerabilità prossima al disfacimento. Come precisato da Dominik, l’ambizione del film consiste esattamente nel prendersi cura della fragilità di Cave (e della sua famiglia, occorre aggiungere), sbozzando un'embrionale struttura narrativa in cui i sentimenti informi, confusi e dolorosi possano depositarsi in cerca di un senso e di una forma possibili: "But it's a guy trying to make a record, and there's all this noise around him and inside him is an inner voice that is constantly struggling and trying to deal with his feelings. It's about giving them a narrative structure that can help him make some sense of something that doesn't make a lot of sense. That's the whole ambition of the film. It's supposed to portray the confusion and the beauty". Avvolgere la confusione nel mantello 3D, insomma, significa circoscrivere un lavorio interiore che può essere rappresentato solo in chiave spaziale e in tonalità minore (il bianco e nero scheletrico, la struttura narrativa minimale coincidente col film stesso come contenitore): del resto la dimensione temporale e grandiosamente trasformativa era già stata ampiamente celebrata in 20,000 Days on Earth, pellicola in cui la magniloquenza espressiva assecondava la tendenza all’ostentazione megalomanica di Cave e in cui la trasformazione performativa aveva i tratti quasi mistici dell'ascensione raggiante (l'esecuzione live di Jubilee Street sopra ogni altra cosa: "I'm transforming / I'm vibrating / I'm glowing / I'm flying / Look at me now / I'm flying / Look at me now").


III - Il nucleo vuoto del trauma

 

Così, se 20,000 Days on Earth era tanto lineare quanto pieno di Cave, One More Time with Feeling va nella direzione opposta, accumulando frammenti caotici e svuotando. Qui è la qualità spaziale (della musica e non solo) a prevalere, è l'accumulo di sequenze costruite con pezzi di cose concepite in momenti differenti a strutturare il film. E, soprattutto, è la sensazione letteralmente indicibile del vuoto a imporsi come nucleo doloroso che il mantello tridimensionale, in questa rappresentazione simile alla stratificazione terrestre, abbraccia e custodisce premurosamente. All'interno di questo spesso involucro protettivo che cosa si trova? Nient'altro che lo spaventoso vuoto del trauma, un "anello" o "recinto" (parole dello stesso Cave) che, aprendo una voragine nel reale, non offre più una versione grandiosamente narcisistica della trasformazione, ma obbliga, semplicemente e inevitabilmente, al cambiamento. Cave lo dice molto bene nel film: "La maggior parte di noi non vuole cambiare veramente. In effetti, perché dovremmo? Ciò che inseguiamo è una sorta di variazione dal modello originale. Proviamo sempre ad essere noi stessi - versioni migliori di noi stessi. O almeno così ci auguriamo. Ma cosa succede quando un evento è così catastrofico da cambiarci completamente? Ci trasformiamo in persone sconosciute. Così quando ci guardiamo allo specchio, riconosciamo la persona che eravamo. Ma ora dentro la nostra pelle vive una persona diversa". È questo buco nel reale a costituire l'autentico nucleo irrappresentabile, vuoto e gravitazionale del film, un nucleo traumatico che il film tenta di costeggiare e circoscrivere senza fargli violenza, senza risolverlo finzionalmente, senza incapsularlo in una struttura rigida e simbolicamente consolatoria. Ancora Dominik: "The real feeling is not one of sadness or one of anger, it's this incredible feeling of emptiness. He talks about it as a trauma, and that's really what it is. He has not been able to create some story around it that contains it or encapsulates it in the same way that you can when you're talking about a song or some other experience. I hope what the film manages to do is to express that confusion. That it isn't resolved".

In altri termini, One More Time with Feeling non è un surrogato narcisisticamente immaginario della perdita (il vieto cliché del dolore che alimenta la creatività) né una protesi simbolica incaricata di colmare il buco reale provvedendo un supplemento narrativo tornito e rassicurante (Dominik: "I don't think perfection is your friend, I think perfection is the enemy"), ma, molto più semplicemente, una testimonianza spaziale (essere lì, in quella situazione, e inquadrare: "We worked framing, which is just pointing the camera", dice Dominik nella conferenza stampa veneziana) che si guarda bene dal proporre un arrangiamento terapeutico o una conformazione normativa alla materia rappresentata. Se questa rispettosa inclusione rifletta in qualche misura l'istintiva soggezione di Dominik per Cave non è dato sapere né rileva minimamente in questa sede, quello che è certo, invece, è che tempo, dolore e memoria sono lasciati integralmente all'interiorità del musicista australiano, il film attenendosi a testimoniare un processo in atto. Ed è proprio questa intimità avvolgente del 3D che dà al film un valore intensamente topologico, un valore in cui lo spazio acquisisce vivide connotazioni psichiche: i 35' di performance musicali riverberano nella cassa di risonanza tridimensionale al cui centro, avviluppato dall'accidentata improvvisazione delle riprese, risiede il vuoto irrappresentabile del trauma, preservato nella sua radicale indicibilità.

One More Time with Feeling non ha dunque la pretesa di riannodare forzosamente reale, immaginario e simbolico di Cave in un'illusione di guarigione post-traumatica (qui il dopo non esiste, c'è solo il presente sfrangiato, aperto e intrinsecamente incompiuto), ma intende, al contrario, preservare il processo in corso con una distanza intima e benevolente (il bianco e nero contribuisce a questo distanziamento discreto, ovvero non invasivo e insieme apprezzabile). Non si tratta, ovviamente, di neutralità dello sguardo: durata delle inquadrature e movimenti di camera (dolly felpati, carrellate circolari, avvicinamenti stetoscopici per amplificare la pulsazione spaziale della musica) esprimono con cristallina e permanente chiarezza la sollecitudine della rappresentazione, un impasto audiovisivo di complementarità e coinvolgimento. E, inversamente, non si tratta neanche di eccessivo pudore o ritrosia rinunciataria. Dal momento che il film deriva per forza di cose dall'intrusione in uno spazio intimo, tanto sul versante del processo creativo quanto su quello più strettamente personale (Dominik: "I always felt like I was intruding"), la questione cruciale di One More Time with Feeling si concretizza nell'esigenza di evitare sia il cinismo del grief porn che l'inibizione del commiserevole mutismo (ancora Dominik: "As a friend, I wouldn't ask Nick the questions that I would ask him as a director. And I had to be the director"). Si tratta, invece e in ultima battuta, di affidare a una consapevolezza non edulcorata dai cascami del sentimentalismo il coraggio di abolire la struttura narrativa riparatoria e accogliere la dirompenza della lacerazione nello spazio filmico. Perché in fondo a One More Time with Feeling, topologicamente e letteralmente, nel luogo terminale della galleria di ritratti e al luogo della persona evocata, non c'è l'immagine di Arthur, ma uno spazio bianco. Il trauma reale della sua scomparsa ha lasciato un vuoto che il film non può riempire, pena lo scadimento nell'assistenzialismo, ma soltanto mostrare nella sua irreparabile assenza. Uno spazio in cui egli è mancante, non più lì, realmente irrappresentabile.

Un ringraziamento all'amico Francesco Saccaro, le cui osservazioni sulla stratificazione connessa all'elaborazione del lutto hanno dato il via a queste riflessioni.

Pubblicata su www.spietati.it.

HOUNDS OF LOVE

 




Nell'estate del 1987, la diciassettenne Vicki Maloney viene rapita da una coppia di serial killer, John e Evelyn White. Dal momento che la fuga pare impossibile, Vicky inizia a osservare la dinamica di coppia dei suoi sequestratori, indovinando rapidamente che, per sopravvivere, dovrà incunearsi tra loro (dal pressbook). 








Thriller psicologico ad alto contenuto di sadismo e ferocia manipolatoria, Hounds of Love, lungometraggio cinematografico d'esordio di Ben Young (classe 1982), rappresenta a prima vista l'ennesima variazione sul tema della coppia di serial killer in cui la figura femminile asseconda ed esegue più o meno docilmente gli ordini perversi del maschio padrone. In questa sorta di sottogenere all’insegna dell'amour fou è immancabilmente la gelosia della donna servile a incrinare l'eccitante ecatombe amorosa della coppia: impossibile non pensare a titoli come The Honeymoon Killers (1970) di Leonard Kastle o al più recente Alleluia (2014) di Fabrice Du Welz, passando per Profundo carmesí (1996) di Arturo Ripstein. Ma, a differenza delle pellicole citate, Hounds of Love apporta due sostanziali modifiche: la prima è quella della stanzialità spaziale (i tre film menzionati sono sostanzialmente road movie irrorati di sangue), la seconda è quella dell'introduzione della "terza incomoda" (la ragazza sequestrata stavolta non si lascia imprigionare nel canonico ruolo di vittima designata/carne da macello, ma conquista gradualmente qualificazione attiva grazie alle sue capacità di osservazione).

Passato pressoché in sordina nella sezione veneziana Giornate degli Autori, Hounds of Love concentra la sua forza illocutoria proprio in questi due punti di torsione espressiva, facendo di necessità virtù: l'ambientazione anni '80 a Perth (Australia Occidentale) non risponde soltanto a esigenze di verosimiglianza (Young si è ispirato a casi reali di coppie criminali), ma soprattutto alla necessità di contenere i costi produttivi (non inganni il formato cinemascope 2:35, il film è stato girato in digitale con due camere Arri Alexa e una Phantom Flex4k per le riprese ultrarallentate a 1000 fps). Questo solido ancoraggio realista, reso possibile dalle particolari condizioni urbanistiche di Perth (intere aree sono state costruite negli anni '70 e '80, restando praticamente immutate fino a oggi), dà a Hounds of Love un sapore tanto credibile quanto singolare: è anche in virtù del radicamento ambientale che il film non scade nell'apologo surreale o nell'allegoria sociologicamente connotata. Una singolarità che segna altrettanto incisivamente l'impianto drammaturgico: la cattura di una preda che, vistasi impossibilitata a fuggire, sfrutta le risorse psicologiche per lacerare la relazione sadomasochistica dei suoi aguzzini sposta il centro gravitazionale del dramma dalla follia a due ermeticamente chiusa allo squilibrio di una triangolazione emotiva sempre sul punto di rovinare da una parte o dall'altra. Il microcosmo a tenuta stagna della violenza domestica e del controllo maschile si tramuta progressivamente in uno spazio sbilanciato e scricchiolante, fratturato da improvvise crepe che ne compromettono la stabilità strutturale. Ed è precisamente sulla spinta di queste componenti singolari che Hounds of Love, come afferma lo stesso Ben Young, acquisisce una traiettoria in qualche modo universale: "Dal punto di vista tematico il film tratta di codipendenza, controllo e violenza domestica, temi che per loro natura sono molto universali".

Ispirato dalle letture materne (la madre di Ben Young è scrittrice di crime fiction ed è solita passare i libri che legge per le sue ricerche al figlio), Hounds of Love (titolo a sua volta ispirato dall'omonimo brano di Kate Bush non finito nel film a causa dell'eccessivo costo dei diritti) articola la triangolazione emotiva anche nel rapporto tra lo spettatore e i personaggi messi in scena: se la coppia di aguzzini interpretata da Emma Booth e Stephen Curry (il volto della commedia australiana, strappato qui alla consueta maschera rassicurante) reclama una qualche empatia nelle vessazioni a cui John è sottoposto dallo spacciatore-creditore e nell'affetto mostrato da Evelyn per il suo cane (animale che sostituisce metaforicamente i figli lontani), Vicki oggettiva esemplarmente all'interno del film la posizione spettatoriale (è in una condizione di immobilità fisica e percezione accresciuta: submotricità e iperpercettività che caratterizzano la situazione della visione cinematografica). E, infine, lo stratagemma comunicativo adoperato da Vicki (Ashleigh Cummings) per comunicare col fidanzato (il crittogramma che, lo sappiamo dall'inizio del film, potrà essere decodificato solo da Jason) introduce un ulteriore meccanismo di attivazione cognitivo-emotiva dello spettatore.

Proveniente dalla regia di serie televisive, video pubblicitari e musicali, Young manipola l'impasto audiovisivo con padronanza e disinvoltura: nonostante uno sguaiato ammiccamento a Il silenzio degli innocenti (il raccordo di montaggio ingannevolmente salvifico del prefinale) e uno scioglimento piuttosto artificioso, il cineasta australiano esaspera le riprese in slow motion con lenti lungofocali, creando un sentimento di voyeurismo immediato (si veda l'incipit) e agganciando questo registro visivo alla perversione predatoria di John. E anche se gli inserti musicali non brillano affatto per originalità ("Nights In White Satin", The Moody Blues; "Lady D’Arbanville", Cat Stevens; "Atmosphere", Joy Division), il soundtrack elettronico di Dan Luscombe, tra droni opprimenti e sonorità ansiogene, incapsula minacciosamente l'intero film nell'incubo della paranoia permanente. Insieme a Chopper (2000) di Andrew Dominik e Animal Kingdom (2010) di David Michôd, non a caso altri due lungometraggi d'esordio, Hounds of Love compone un ideale trittico sulla perdita dell'innocenza australiana.

Pubblicata su www.spietati.it.

lunedì 26 settembre 2016

LOST RIVER

 




In una città morente, Billy, madre nubile di due bambini, è trascinata poco a poco nei bassifondi di un mondo oscuro e macabro, mentre Bones, suo figlio maggiore, scopre una strada segreta che porta a una città sommersa. Billy e suo figlio dovranno affrontare numerosi ostacoli affinché la loro famiglia riesca a cavarsela (dal pressbook).








Tra le innumerevoli conferenze stampa, presentazioni pubbliche e interviste festivaliere rilasciate da registi che perlopiù non fanno che ripetere le solite formule autopromozionali, si trovano anche, seppur sporadicamente, osservazioni sulle quali vale la pena soffermarsi, eleggendole a oggetto di riflessione. Soprattutto quando, come avviene in questo caso, a parlare è Paul Schrader, studioso, sceneggiatore e autore che ha attraversato quasi mezzo secolo di cinema americano captandone segnali di rinnovamento e riconfigurazioni radicali. Nell’intervista rilasciata alla Quinzaine des Réalisateurs in occasione della proiezione del suo ultimo e ludicamente funereo film Dog Eat Dog, Schrader afferma qualcosa che va ben al di là della constatazione lapalissiana o della dichiarazione di circostanza. Riferendosi non tanto al suo film quanto, più ampiamente, al cinema contemporaneo, Schrader dà alla sua osservazione una portata critico-teorica: la considerazione sul mutamento dei singoli film (critica) si ripercuote sulle condizioni generali di possibilità del mezzo (teoria).
Ecco cosa sostiene l’autore di Hardcore (1979), Cortesie per gli ospiti (1990) e The Canyons (2013): «La lezione di base che ho appreso negli ultimi cinque anni è che la nozione dello stile unificato sta collassando. Eravamo abituati a questa nozione che ogni film avesse il proprio stile particolare e ora, con queste sensibilità “multimedia multitasking”, puoi mescolare e combinare a piacimento quello che vuoi nei film e gli spettatori non se ne preoccupano. Puoi girare una scena alla Cassavetes, metterla accanto a una scena alla Welles, a una scena alla NCIS, alla Godard o alla Béla Tarr: gli spettatori le processeranno tutte insieme. Sicché ogni cosa è in qualche modo possibile e ciò rende la situazione eccitante ma anche un po’ caotica».

Ebbene, alla luce delle considerazioni schraderiane, non sorprende affatto che Lost River, esordio alla regia di Ryan Gosling, abbia messo in difficoltà la critica proprio per il suo carattere palesemente e ostentatamente eterogeneo. Il fatto, però, è che la disomogeneità stilistica (il collasso della nozione di stile unificato, direbbe Schrader) non costituisce soltanto una caratteristica diffusa e in qualche modo distintiva del cinema contemporaneo, ma in questo caso è addirittura assunta come insegna esplicita, vero e proprio principio creativo. Le prime parole che si leggono nel Presskit del film sotto la voce “Note del regista” non potrebbero essere più chiare: «A più di un titolo questo film è il regalo che mi hanno fatto i registi con i quali ho avuto la fortuna di lavorare in questi ultimi anni. Come attore sono passato dai film profondamente ancorati nella realtà di Derek Cianfrance all’immaginario di Nicolas Winding Refn. Penso di aver oscillato tra questi due estremi perché la mia sensibilità di regista si situa da qualche parte tra i due». Insomma, non siamo davanti a un film che fa della coerenza stilistica la propria ragion d’essere, ma, al contrario, ci troviamo di fronte a una pellicola che dichiara apertamente la propria eterogeneità estetica (l’oscillazione tra i due poli del realismo e della trasfigurazione immaginifica) e la propria eredità genetica (Cianfrance e Refn su tutti). In altri termini, le accuse di scarsa originalità, incoerenza e confusionismo piovute su Lost River (“ha scimmiottato Lynch, Malick, X, Y e Z”; “ci ha messo dentro troppa roba senza saperla controllare”; “il virtuosismo si è divorato la narrazione”) non ignorano soltanto la constatazione di Schrader, denunciando in questo modo il ritardo della critica nei confronti di un mutamento cinematografico in larga parte già consumatosi, ma trascurano anche il carattere fortemente esplicito della disomogeneità stilistica come deliberato principio compositivo, riproducendo così nel particolare (film) un attaccamento nostalgico a categorie di giudizio definitivamente superate e una miopia teorica che impedisce di mettere a fuoco la trasformazione avvenuta sul piano generale (cinema).

Duole molto essere costretti ad adottare un tono così didascalico e illustrativo, ma è proprio di fronte a film del genere che occorre fare, in qualche modo, il punto della situazione ed evidenziare lo strappo prodottosi tra critica e film da una parte e critica e teoria dall’altra: rifugiarsi nel misoneismo rancoroso in nome di una perduta unità stilistica significherebbe allontanarsi irrimediabilmente dalla produzione audiovisiva contemporanea e alienarsi inconsapevolmente nel culto di un passato mitico nel quale i Grandi Maestri padroneggiavano lo Stile (Forma) e la Narrazione (Contenuto). Anche perché, non appena superato lo scoglio della disomogeneità formale, si scorge con facilità un elemento coesivo sufficientemente capace di assicurare unità espressiva a Lost River: il tono oscuramente fiabesco. L’oscillazione tra ancoraggio realista e trasfigurazione immaginaria trova difatti in questa tonalità una sintesi in grado di incorporare un realismo che talvolta rasenta addirittura l’improvvisazione (la sequenza del ballo tra Bully/Matt Smith e Marylou/Mama Aris) e una traccia fantastica che in alcuni frangenti non teme di seguire una segnaletica scopertamente surreale (l’incantesimo della città sommersa e i lampioni che si accendono quasi per magia dopo l’immersione di Bones/Iain De Caestecker).

Questa tonalità distinta e persistente che attraversa e lega a varie altezze l’appariscente eclettismo stilistico (ecletticità peraltro acuita dalle spezzature di un montaggio che gioca molto spesso su divaricazioni spaziali e accavallamenti cronologici sensibilmente spiazzanti) consente inoltre al film di integrare continui riferimenti a pellicole anni ’80 senza che questi ne dirottino la traiettoria intimamente fantastica (Gosling: «Ho attinto ai film fantastici per il grande pubblico degli anni ’80 coi quali sono cresciuto e ho passato questi riferimenti attraverso il prisma della sensibilità che ho acquisito successivamente in materia di cinema. Partendo da là, la storia di Lost River ha cominciato a disegnarsi sotto forma di fiaba oscura, con la città nel ruolo della damigella in pericolo e dei personaggi simili ai frammenti di un sogno spezzato che tentano di ricostruirsi»). Il materiale eterogeneo che confluisce in Lost River (come la facciata del locale notturno in cui Eva Mendes e Christina Hendricks si esibiscono in performance grandguignolesche, riproduzione quasi letterale del famigerato cabaret parigino L’Enfer) trova dunque la sua organicità in questa atmosfera fiabesca che il direttore della fotografia Benoît Debie modula e trasferisce sulla pellicola (pur ospitando inserti digitali, il film è stato girato in 35mm) con la consueta maestria nella resa dell’illuminazione naturale e delle variazioni tonali.

Ma l’aspetto di gran lunga più ragguardevole del primo lungometraggio cinematografico di Ryan Gosling risiede senza ombra di dubbio nella costruzione di uno spazio urbano tanto percorribile in ogni sua dimensione quanto disabitato, decadente e disertato dalle forze dell’ordine: la reale Detroit filmata diviene a tutti gli effetti la città immaginaria di Lost River, una sorta di Manhattan carpenteriana con Bully nei panni del Duca e il rame come oggetto di valore sul quale egli rivendica dominio assoluto (“I own this fucking copper, I own this fuckin’ city! Welcome to Bullytown!”, sbraita dalla sua Cadillac Eldorado sulla quale troneggia un’assurda poltrona imbottita). Un microcosmo fantastico in cui realtà suburbana e proiezione distopica riverberano l’una nell’altra sulle sonorità echeggianti di Johnny Jewel. Presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2014.
Disponibile in Dvd e Blu-Ray (M2 Pictures, Eagle Pictures).

Pubblicata su www.spietati.it.

giovedì 25 agosto 2016

EL ABRAZO DE LA SERPIENTE



 

Karamakate, un potente sciamano dell'Amazzonia, ultimo sopravvissuto del suo popolo, vive nella giungla più profonda, in isolamento volontario. Decenni di solitudine hanno fatto di lui un chullachaqui, il guscio vuoto di un essere umano, privo di ricordi e di emozioni. La sua vita svuotata è sconvolta dall'arrivo di Evan, un etnobotanico americano alla ricerca della yakruna, una pianta sacra dai grandi poteri, in grado di insegnare a sognare. Insieme si imbarcano in un viaggio nel cuore dell'Amazzonia, durante il quale passato, presente e futuro si intrecciano, e durante il quale Karamakate lentamente inizia a riconquistare i suoi ricordi perduti (dal pressbook).





Lodevole negli assunti (fare del punto di vista di un indigeno dell'Amazzonia colombiana il perno dell'intera vicenda) e ammaliante nella raffigurazione dello spazio (un bianco e nero prezioso e cristallino ammanta quasi integralmente i territori filmati), El abrazo de la serpiente è uno di quei film dai quali si rischia di rimanere facilmente intimiditi o addirittura accecati. La cosiddetta “importanza del tema” (restituire dignità e piena titolarità allo sguardo nativo nell'incontro/scontro con la cultura colonizzatrice), le difficoltà incontrate dalla troupe nella realizzazione delle riprese (sfida quasi impossibile per complicazioni logistiche e ambientali) e l'encomiabile rispetto dimostrato nei confronti del sapere tribale (la sapienza sciamanica profondamente radicata nella conoscenza e nell’esperienza storica del territorio) non possono non influire sull'atteggiamento e sul posizionamento affettivo dello spettatore durante la visione. Ma dal momento che tali fattori, per quanto consistenti e indiscutibili, non possono e non devono condizionare né intralciare il giudizio sull’esito cinematografico, occorre metterli in sordina e considerare liberamente il film. Gli indubbi meriti dell’impostazione “non-occidentale” adottata da Ciro Guerra (classe 1981) e dal cosceneggiatore Jacques Toulemond si calano difatti in forme inequivocabilmente convenzionali e illustrative. Detto altrimenti, dai rispettosi e rispettabili assunti non discende una forma filmica che li inveri cinematograficamente.

Non è soltanto il dettato visivo di El abrazo de la serpiente a tradire un arrangiamento grammaticalmente ortodosso (composizione dell'inquadratura concepita secondo principi di coerenza e leggibilità, soggettive classicamente costruite con raccordi di sguardo ben orientati), ma è anche il suo fraseggio sintattico a non discostarsi dai precetti retorici più consolidati (scene dotate di unità spaziale e temporale chiaramente definita, sequenze perfettamente concatenate tra di loro). Insomma, ci troviamo di fronte a un film che espone didascalicamente la materia trattata, “dicendo” la cultura tribale e sapienziale con ortografia impeccabile e razionale. Non che questo sia un limite in sé, beninteso, ma nella fattispecie impedisce alla pellicola di oggettivare cinematograficamente i propri propositi “non occidentali”. Persino il solo momento in cui i vincoli grammaticali e sintattici si sciolgono vistosamente (la visione provocata dagli effetti allucinogeni della yakruna) è incapsulato in una sequenza che, alla stregua di una parentesi onirica, ne mostra convenzionalmente il prima (l'assunzione della pianta) e il dopo (il risveglio/ritorno alla coscienza).

Ultima considerazione sulla costruzione narrativa di El abrazo de la serpiente, probabilmente l'aspetto più rimarchevole del film: il racconto è imperniato sul duplice incontro tra lo sciamano Karamakate e i due scienziati bianchi (l'etnologo Theodor Koch-Grünberg interpretato Jan Bijvoet e il botanico Richard Evans Schultes interpretato da Brionne Davis) nel corso di alcune decine di anni (una quarantina per la precisione). Nel corso del tempo, il giovane e possente Karamakate (Nilbio Torres) è divenuto un vecchio smemorato e disorientato (Antonio Bolívar) o più precisamente un chullachaqui (sorta di Doppelgänger privo di ricordi ed emozioni, proiezione svuotata del Karamakate di cui è il duplicato). Ebbene, l'incontro tra il guscio vuoto del vecchio sciamano e il botanico Evans ha non solo la funzione di riattivare gradualmente i ricordi e le emozioni perdute di Karamakate, ma anche e soprattutto quella di chiarirne la missione: consegnare il suo sapere ancestrale all'uomo bianco (Karamakate considera i due scienziati come un solo individuo, il secondo un chullachaqui del primo). Fondato sull'idea di ricondurre la doppiezza all'unità grazie alle proprietà visionarie della yakruna, questo programma rigenerante possiede il sapore di uno stratagemma fortemente dimostrativo. E, per quanto condotto con rispettosa adesione, non contribuisce minimamente a smuovere le regole di comprensione raziocinante dello spettatore. Più una dimostrazione che una rigenerazione, in una parola. Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2015 nella sezione Quinzaine des Réalisateurs (si è aggiudicato il premio Art Cinéma) e candidato al premio Oscar come miglior film straniero.

Pubblicata su www.spietati.it.

martedì 24 maggio 2016

PERICLE IL NERO





Pericle Scalzone, detto Il nero, di lavoro “fa il culo alla gente” per conto di Don Luigi, boss camorrista emigrato in Belgio. Durante una spedizione punitiva per conto del boss, Pericle commette un grave errore. Scatta la sua condanna a morte. In una rocambolesca fuga che lo porterà fino in Francia, Pericle incontra Anastasia, che lo accoglie e gli mostra la possibilità di una nuova esistenza. Ma Pericle non può sfuggire a un passato ingombrante e pieno di interrogativi (dal pressbook). 






Pericle il nero era un bel romanzo, Pericle il nero è un bel film. Il riferimento al noir partenopeo di Ferrandino non può essere ignorato né minimizzato, poiché l'adattamento cinematografico di Mordini rispecchia pienamente il principio "infedeltà alla lettera del testo di partenza/fedeltà al suo spirito". Senza dilungarci in minuziose analisi sui meccanismi di trasposizione che hanno portato la vicenda di Pericle dalla pagina allo schermo (la sceneggiatura è firmata da Francesca Marciano, Valia Santella e dallo stesso Mordini), corre tuttavia l'obbligo di segnalare almeno tre aspetti macroscopici che il romanzo pone come passaggi obbligati: la sua marcata visualità/sensorialità (nel romanzo Pericle non è soltanto voce narrante, ma anche sorgente sensoriale: "Mentre colpivo ho sentito la piscia calda colarmi all’interno di una delle gambe dei pantaloni"), la sua impronta rigorosamente soggettiva (Pericle non è soltanto protagonista degli eventi, ma è coscienza centrale del romanzo tanto negli atti quanto nei pensieri) e la sua tonalità tra il confidenziale e il grottesco (Pericle si rivolge al lettore con immediatezza e complicità, stabilendo con lui un rapporto informalmente empatico: "Era la prima volta in vita mia che vedevo una periferia. Non so neanche come mi è venuta in mente questa parola. L'avrò sentita in qualche film").

Attraversando le pagine di Ferrandino, quello che ci ha subito catturato è stata quella strana musica che suonava dentro la testa di Pericle. Abbiamo cercato di assecondarne i pensieri, accordandoci alle sue digressioni e alle sue intuizioni, solo così potevamo trovare la sua storia e quella del nostro film (Stefano Mordini).

Ebbene, senza tradursi in calchi automatici o cliché pedissequi, questi tre passaggi imposti della scrittura di Ferrandino si ricompattano nel film con ammirevole giustezza e incisività: la salienza sensoriale del romanzo si riconfigura cinematograficamente nelle spiccate proprietà di captazione di Pericle (Riccardo Scamarcio in un'interpretazione semplicemente perfetta), l'impronta letteraria in prima persona si ricompone nelle traiettorie marcatamente soggettive della pellicola (oltre a essere costantemente in scena, Pericle orienta fisicamente ogni inquadratura) e il sapore confidenziale del dettato romanzesco, espurgato degli elementi più grotteschi e regionalistici, si riversa in una voce narrante dai toni caldi e sussurrati, come una confessione fatta a un amico di lunga data. La trasposizione filmica di Mordini ruota precisamente attorno a questo triplice punto d'appoggio, prendendo tuttavia le distanze dalla trascrizione illustrativa e trovando una misura espressiva che, pur non rinnegando l'origine letteraria o la derivazione dal genere noir, ha il coraggio di sradicare la vicenda dal suo contesto nativo (il romanzo è ambientato tra Napoli, Battipaglia e Pescara) e potenziare la componente affettivo-familiare (nel libro l'aspirazione domestica di Pericle è appena accennata e il suo rapporto con Nastasia molto più freddo).

Il Nero che contiene il titolo del film ci ha indicato la strada del genere mentre tutti noi, compreso Pericle, cercavamo la luce. Così il film sfugge a qualsiasi definizione, c'è dramma, c’è la teatralità di certe figure iconiche e c’è un vena di humor (nero). Ed è la voce di Pericle a guidarci in una fuga che ha un solo scopo: fermarsi in un luogo tranquillo e non essere più solo (SM).

Le due alterazioni (deterritorializzazione e potenziamento del desiderio familiare) sono strettamente correlate: lo spostamento geografico da Napoli/Pescara a Liegi/Calais fa di Pericle un vero e proprio déraciné e questa condizione di profondo sradicamento, accentuata dalla permanenza coatta nell'appartamento dei tunisini, acuisce il sentimento di solitudine del personaggio, che non ha più punti di riferimento stabili e si muove in uno spazio a lui completamente ignoto. L'approdo casuale a Calais, luogo di frontiera per eccellenza, e l’incontro altrettanto fortuito con Anastasia (Marina Foïs), altro personaggio sostanzialmente solo e sradicato (proviene da Tolone e lì sogna di tornare per aprire un forno tutto suo), apre uno spiraglio di cambiamento nell'esistenza randagia e telecomandata di Pericle. Così saldate, le due trasformazioni introdotte nell'adattamento cinematografico ribaltano i rapporti di forza tra ambiente e personaggio: nel libro è l'ambiente a determinare Pericle, mentre nel film, essendo intimamente sradicato dal contesto, egli gode di un'opportunità di affrancamento meno angusta e impraticabile. Detto altrimenti, il Pericle del film non è completamente condizionato dall'ambiente, ma si trova in una condizione di spaesamento permanente, gettato in un mondo che non ha ancora scritto il suo avvenire. Trapiantato in uno spazio al quale egli non sente di appartenere, egli dispone ancora di un margine di scelta grazie al quale può ancora dire sì o no a quel destino di esistenza negata che il boss Don Luigi (Gigio Morra) gli ha gelidamente sibilato nei primi minuti (“Don Luigi, ma io che dovevo fare?”; “Tu non dovevi proprio nascere”). Egli è ancora in grado di progettare, seppur tra mille insicurezze e impulsività tardoadolescenziali, il proprio futuro.

Dico nostro perché tutti noi, gli autori della sceneggiatura, gli attori, i produttori, insieme abbiamo deciso di seguire Pericle e abbiamo aspettato che quel personaggio ci si mostrasse per intero. E abbiamo scoperto un orfano, che non appartiene a nessuno, in cerca di una famiglia, che vive in un paese non suo, uno strano essere che si riempie di chimica per placare l'assenza che gli ribolle dentro (SM).

Alla luce degli snodi evidenziati (sradicamento, solitudine, invenzione del proprio destino), pare insomma palese che il film di Mordini traghetti la materia narrativa di partenza in pieno territorio esistenziale, aprendo la vicenda di Pericle alla dimensione della ricerca e della progettualità. È una dimensione che si percepisce distintamente in tutto il film, ora convergendo in un'attività ruminativa che innerva i momenti di stasi e non detto (i viaggi nel furgoncino, la decisione cruciale di non sodomizzare Don Luigi), ora confluendo in un'energia che corre sottopelle nei frangenti immediatamente precedenti all'azione (l'individuazione dei due killer inviati a Calais, il tesissimo faccia a faccia con Anna/ Valentina Acca nel prefinale). Ed è una dimensione che, per forza di cose, investe collettivamente le professionalità coinvolte nella lavorazione del film: dalle vibrazioni luministiche della fotografia di Matteo Cocco (le tonalità rossastre/aranciate degli spostamenti notturni, i chiarori bluastri degli esterni a Calais) alle variazioni di velocità del montaggio di Jacopo Quadri (la precipitosa fuga di Pericle dalla casa dei tunisini è un piccolo saggio di sintassi visiva), passando per le scenografie di Igor Gabriel (l'eclettismo pacchiano dell’abitazione di Don Luigi, la disadorna modestia dell'appartamento di Anastasia) e per i costumi di Antonella Cannarozzi (il giaccone di pelle scura dalle spalle cadenti indossato da Scamarcio connota il personaggio con straordinaria precisione).

Un percorso di svelamento che è continuato sul set, dove la macchina da presa è diventata testimone attivo e partecipe (SM).

Ma la maggiore riuscita di Pericle il nero risiede, secondo chi scrive, nella qualità pseudosoggettiva dello sguardo: anziché tempestare il fraseggio visivo del film di inquadrature soggettive (come l’impronta fortemente individuale sembrerebbe richiedere), la messa in scena di Mordini si deposita quasi sempre in forme lievemente dissociate dal punto di vista del protagonista. Pur rimanendo il centro focale e il principio di orientamento delle sequenze, Pericle è spesso iscritto in uno spazio che lo sovrasta, lo incapsula o gli sfugge. Ovviamente abbondano le semisoggettive (inquadrature in cui spalle nuca di Pericle sono parzialmente visibili), ma, ancora più spesso, anche quelle che inizialmente sembrano soggettive (ovvero inquadrature provenienti dal suo sguardo) si rivelano false soggettive, il suo corpo entrando in scena a scoppio ritardato: Pericle non soltanto non è padrone dello spazio che lo circonda, ma non è nemmeno padrone del suo sguardo, incarnando così un personaggio che, privato del proprio passato (la rivelazione quasi edipica della sua vera origine da parte di Signorinella/Maria Luisa Santella), vive nel presente la condizione di entità inconsapevolmente eterodiretta. Al lavoro del film spetta dunque il compito di ricomporre ipoteticamente una coscienza lacerata e disintegrata che trova provvisorio conforto nell’assunzione reiterata di sostanze chimiche, illusione di consistenza soggettiva e comprensibilità del reale. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2016 nella sezione Un Certain Regard.

Pubblicata su www.spietati.it.

sabato 14 maggio 2016

LA FORESTA DEI SOGNI




"Sono l’amore e la perdita a condurre Arthur Brennan (Matthew McConaughey) all’altro capo del mondo, in Giappone, nella foresta fitta e misteriosa di Aokigahara, nota come “la foresta dei sogni”, situata alle pendici del Monte Fuji - un luogo in cui uomini e donne si recano a contemplare la vita e la morte. Sconvolto dal dolore, Arthur penetra nella foresta e vi si perde. Lì Arthur incontra Takumi Nakamura (Ken Watanabe), un giapponese che, come lui, sembra aver perso la strada. Incapace di abbandonare Takumi, Arthur usa tutte le energie che gli restano per salvarlo" (dal pressbook). 





È piuttosto difficile mantenere un atteggiamento equilibrato di fronte al sedicesimo lungometraggio cinematografico di Gus Van Sant, poiché La foresta dei sogni, considerato separatamente dal resto della filmografia dell’autore di Last Days (2005) e Paranoid Park (2007), può essere legittimamente considerato un coacervo di cliché patetici, stratagemmi strappalacrime e simbolismi a buon mercato. Si pensi all’alcolismo funzionale della moglie Joan (Naomi Watts) e al suo tumore al cervello, questo imbattibile aggregatore di affettività che opera da nemico comune in grado di risolvere le tensioni della coppia; oppure si presti attenzione alla logica cinicamente accidentale che proscioglie la stessa Joan dal verdetto canceroso per condannarla subito dopo alla beffarda sentenza di un incrocio stradale; oppure si rifletta sull’arsenale simbolico che ingombra sfacciatamente l’intera vicenda, dalla foresta di Aokigahara come luogo di elezione del suicidio perfetto all’orchidea che nel finale rimpiazza/ibrida Joan e Takumi (Ken Watanabe), passando per l’intrico di fasce colorate che Arthur (Matthew McConaughey) incontra all’inizio del cammino, la busta favolosa e gli ideogrammi che nell’epilogo si riveleranno essere il colore e la stagione preferiti da Joan.

Come se non bastasse, a questo allestimento spudoratamente segnaletico (non ci vengono risparmiati neppure i pannelli dissuasori di suicidio) e metaforicamente frusto (la natura è un tempio, recita il poeta, l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli) si aggiunge un arrangiamento narrativo che si premura accuratamente di non lasciare lacune o rebus irrisolti: ci sarà un flashback, una magica coincidenza o una scoperta in extremis a mostrare i dolorosi precedenti, correggere la rotta suicida di Arthur e restituire alla vita la dignità di essere vissuta nonostante le tragedie che colpiscono immancabilmente ognuno di noi. A imporsi perentoriamente, insomma, è la filosofia del "just keep living", declinata con una serietà così enfatica da sbriciolare il muro del comico involontario nell’arco di un paio di sequenze (il punto di non ritorno è già guadagnato con la comparsa delle manine rattrappite di un cadavere che spunta tra gli alberi). Persino "kaidan", termine giapponese che designa tradizionalmente le cosiddette storie di fantasmi, viene impiegato nell’accezione di "scala", caricandosi di connotazioni salvifiche e metaforiche: si tratta di risalire dalla foresta purgatoriale a una nuova vita, conquistare un’esistenza finalmente riappacificata con gli spettri che infestavano la coscienza e definitivamente libera dal senso di colpa. Non sarà una vera e propria scala al paradiso, ma la guarigione catartica ottenuta grazie al generoso intervento di Takumi si approssima incautamente alla vittoria fuori casa col conseguimento della salvezza insperata.

Meno deludente e improduttivo, invece, il raffronto col film di cui La foresta dei sogni rappresenta a tutti gli effetti il controtipo positivo: Gerry (2002), secondo chi scrive il capo d’opera di Gus Van Sant. Detto più chiaramente, The Sea of Trees riempie a distanza il vuoto desertico creato da Gerry. A partire dal titolo: laddove Gerry designava entrambi i protagonisti impedendo una loro individuazione nominale (e di conseguenza gettando un’ombra di sospetto sulla reale esistenza/consistenza di almeno uno dei due personaggi), The Sea of Trees, alla lettera "Il mare di alberi", sposta subito l’accento sulla dimensione metaforica, piazzando il viaggio di Arthur sotto il segno dell’allegoria dal valore universale. Con Gerry ci trovavamo insomma nel registro del particolare indistinto, mentre con The Sea of Trees siamo immediatamente proiettati nell’universale localizzato (la foresta di Aokigahara come "il luogo perfetto dove morire"). Foresta/deserto, vita/morte, umidità/siccità, allegoria/fenomenologia, didascalismo/enigmaticità, verbosità/laconicità, mutua assistenza/ostilità crescente: sono queste le dicotomie fondamentali che contrappongono La foresta dei sogni a Gerry. Dicotomie alle quali occorre aggiungere il trattamento antitetico del passato dei personaggi (dei due protagonisti del film del 2002 non conoscevamo niente, del vissuto di Arthur e Takumi sappiamo tutto ciò che occorre sapere) e l’opposta traiettoria morale disegnata dalle due pellicole (all’assenza di qualsiasi mandato di speranza in Gerry corrisponde, in The Sea of Trees, il messaggio a caratteri cubitali "la vita vale la pena di essere vissuta perché è piena di sorprese e aiuti provvidenziali").

Ancora più delicata e ragguardevole la distanza psichica che separa la deriva disorientata di Gerry dal tragitto introspettivo di The Sea of Trees. Pur essendo film eminentemente mentali (emblematica la presentazione del "mare di alberi" sui titoli di testa de La foresta dei sogni prima dell’inquadratura frontale di Arthur in macchina: il luogo è già nella sua mente), le due pellicole configurano dinamiche di spaesamento diametralmente opposte. In Gerry la destinazione, ossessivamente chiamata "Thing" ("Cosa"), sembrerebbe talmente facile da raggiungere da essere quasi inevitabile arrivarci - "Ogni sentiero porta alla Cosa", veniva ottimisticamente detto nei primi minuti da Gerry/Damon - e il seguito del film mostrerà di fatto l’inattingibilità della Cosa stessa, mentre in The Sea of Trees non solo l’arrivo nella foresta di Aokigahara è un semplice trasferimento senza intoppi, ma anche la scelta del luogo deputato al suicidio viene effettuata senza troppe esitazioni. Se in Gerry la Cosa era irraggiungibile a causa dello smarrimento causato dall’incapacità di fissare punti di riferimento affidabili nello spazio, in The Sea of Trees il punto di arrivo è guadagnato in tempi tecnici e senza alcun disorientamento.

Questa enorme discrepanza nella concezione spaziale porta direttamente al nucleo differenziale dei due film: il rapporto tra la dimensione simbolica del linguaggio e quella del reale. L’insormontabile problema che assilla i due Gerry risiede difatti nell’impossibilità di ritagliare simbolicamente lo spazio, di formulare significanti in grado di fare presa sul reale per articolarlo e ordinarlo cartesianamente (fare del territorio una mappa mentale, in altri termini). I materiali verbali che essi producono tendono al contrario a diradarsi, appiattirsi e "desemantizzarsi": la Cosa svanisce e il nome Gerry finisce per coprire porzioni sempre più vaste di reale, perdendo il proprio statuto di nome proprio per farsi sostantivo pervasivo il cui significato sembra slittare da un oggetto all’altro e da una situazione all’altra (si noti anche il mutamento di categoria grammaticale: dal nome Gerry i due personaggi ricavano il verbo corrispondente a indicare genericamente la mancata realizzazione di un’azione utile). Persino i gesti dei due protagonisti si sganciano dal piano del significato intenzionale per tradursi in puri e semplici passaggi all’atto di natura pulsionale (l’aggressione finale di Gerry/Damon nei confronti di Gerry/Affleck). In The Sea of Trees, al contrario, tutto è segno: Arthur scopre l’esistenza della foresta di Aokigahara con una ricerca su Google - sempre più Pizia contemporanea - e il contenuto verbale/iconico della ricerca si deposita subito nella sua mente (si pensi nuovamente ai titoli di testa). La macchina abbandonata alle soglie della foresta e i pannelli deterrenti al suicidio, peraltro sottotitolati in inglese all’occorrenza, accolgono il suo arrivo e lo avvisano a chiare lettere: qui siamo nell’ambito del significato intenzionale e inconfondibile. Nulla è lasciato al caso, il reale non ha niente di sconosciuto o intimamente misterioso: si viene qui per morire e questo fatto è universalmente noto. Il senso condiviso e risaputo celebra il suo trionfo: benché giapponese, Takumi parlerà fluentemente in inglese, gli ideogrammi inizialmente indecifrabili verranno tradotti nel finale e il corpo stesso del nipponico compagno di sventura di Arthur si trasformerà miracolosamente in orchidea (non un fiore a caso, ma quello preferito dalla moglie Joan). Da questa angolazione, infine, è possibile contrapporre il vuoto nevrotico di Gerry, pellicola in cui a imporsi è il vacillamento dubbioso e ossessivo dei protagonisti, alla pienezza psicotica di The Sea of Trees, film nel quale tutto è segno, metafora, allegoria. L’illusione di consistenza soggettiva che la radicale certezza simbolica di The Sea of Trees genera senza soluzione di continuità (sovrimpressione permanente: "tutto mi parla, tutto mi riguarda") lo connota inequivocabilmente come un film paranoico e perversamente prossimo alla credenza delirante. La foresta dei sogni diviene così, con una brusca torsione psicotica, "La foresta dei segni".

Pubblicato su www.spietati.it.