martedì 15 dicembre 2015

L'INFINITA FABBRICA DEL DUOMO

“La storia dell’edificio simbolo di Milano, a partire dalla notte in cui Gian Galeazzo Visconti sognò il diavolo che gli intimava di costruire un luogo maestoso. La sua risposta fu immediata: concedere l’uso delle cave di Candoglia a una Veneranda Fabbrica per costruire una cattedrale degna dei sogni di grandezza della casata. Dalla fine del ’300 ai primi anni del ’900, quando l’ultima porta di bronzo venne posizionata, dalle cave sono partiti in barca più di mezzo milione di blocchi di marmo. I due cineasti ci conducono attraverso i secoli in quello che appare un lavoro in continuo divenire. Primo atto della quadrilogia Spira Mirabilis sul concetto di immortalità attraverso gli elementi della natura, L’infinita fabbrica del Duomo rappresenta la Terra. I testi adattati da Milano in mano di Guido Lopez e Silvestro Severgnini e Storia della Veneranda fabbrica di Carlo Ferrari da Passano rappresentano un contrappunto al racconto per immagini e alla riflessione su finitezza e immortalità” (dalla scheda del FilmMakerFest 2015). 


Le inquadrature iniziali de L’infinita Fabbrica del Duomo, primo pannello di una tetralogia sugli elementi naturali intitolata Spira Mirabilis, sono dedicate all’olmo più antico d’Italia, piantato nel 1386 ai piedi della montagna dalla quale, nello stesso anno, si estraeva il primo blocco di marmo per la costruzione della cattedrale. Scrutato dal nodoso interno della sua cavità e osservato nelle sue poderose ramificazioni sorrette da stampelle, l’olmo di Mergozzo si collega alla vicenda del Duomo non soltanto per concomitanza cronologica e geografica, ma soprattutto per tradizione leggendaria, poiché, come recita la didascalia che chiude il prologo: “La leggenda dice che finché l’olmo vivrà, anche la cattedrale rimarrà in piedi”. È precisamente questa la traiettoria dell’ultimo lavoro di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi: ricavare dagli elementi (in questo caso la terra) un dialogo organico che, pur non smarrendo il punto focale di osservazione, restituisca la loro incessante compenetrazione, la loro continua sovrapposizione. Ed è così che procede L’infinita Fabbrica del Duomo: con un movimento ascensionale che dalle viscere delle montagne di Candoglia conduce alla sommità della cattedrale e al cielo che si staglia dietro le statue svettanti sulle guglie. Dalla terra all’aria, dall’elemento terrestre a quello celeste passando per l’infinito lavorio degli uomini, soprattutto quelli umili, anonimi e dimenticati.

Autentica chiave di volta del titolo, l’aggettivo “infinita” esprime insieme grandezza e miseria: grandezza di un’opera che, per ambizione e sfarzo, tende alla “gloria di colui che tutto move” e miseria di un lavoro che, per glorificare il divino, implica privazioni e violenza. Privazioni di chi, lavorando nell’ombra e sacrificando le proprie risorse alla Veneranda Fabbrica, ha contribuito all’edificazione e alla manutenzione della maestosa cattedrale; violenza praticata da secoli sugli elementi per creare un gigantesco simbolo del dominio sul creato: “Nel caso del Duomo abbiamo trovato interessante l’idea che sia stato realizzato con le più alte intenzioni, ma a partire comunque da un atto di violenza nei confronti della natura. L’estrazione del marmo, della materia prima dalla montagna è un gesto violento: il taglio di queste vene marmoree è il primo segno di una perdita di innocenza. L’opera dell’uomo ha sempre e comunque a che fare con qualcosa di brutale” (Massimo D’Anolfi). Una violenza, dunque, che, pur animata da intenti solennemente celebrativi e apotropaici (la terza didascalia recita: “Tutto cominciò la notte in cui Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, sognò il diavolo in persona che gli intimava di costruire un luogo maestoso e ricco di immagini sataniche e demoniache. Pena le fiamme dell’inferno”), è intrinsecamente e inevitabilmente connessa all’azione umana, al suo intervento diretto sugli elementi naturali. Edificare un tempio alla gloria celeste significa contemporaneamente sventrare montagne, alterare la fisionomia del territorio, operare un intervento sul corpo della natura (alcune immagini in negativo e alcune immagini d’archivio delle cave di Candoglia sono piazzate davanti ai nostri occhi e sfogliate clinicamente come radiografie).

Eppure a imporsi, agli occhi di chi scrive, è soprattutto l’indocilità della materia, la sua resistenza ai tagli inferti dall’uomo. Una riluttanza che s’indovina, non troppo diversamente da ciò che accadeva con l’umanità residuale di Materia oscura o Il castello, nei detriti inutilizzabili, nelle fragorose cascate di pietrisco, nella consunzione che sfigura i volti e abrade le forme delle statue, in una lucertola che fa capolino dalla cavità di un frammento lapideo dismesso, nel candido pulviscolo che imbianca le officine dei cantieri. È qui che la materia prende la sua rivincita, ribellandosi alla proterva brutalità dell’opera umana, negando il segno netto e incisivo impresso dal lavoro dell’uomo. Sotto l’apparente celebrazione della solerte e inesausta laboriosità umana (la Fabbrica del Duomo è Veneranda per definizione: degna di rispetto e ammirazione) si disegna quindi un’altra storia, quella del perenne antagonismo tra uomo e ambiente, tra azione umana e materia prima: è questo l’autentico fulcro del cinema di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi (ancora D’Anolfi: “In Materia oscura siamo davanti a una brutalità stupida e ottusa, mentre in L’infinita fabbrica è quasi connaturata all’azione umana nel momento in cui si rapporta con la natura; c’è sempre una sorta di sentimento di appropriazione, anche quando si vogliono fare cose buone”). Insomma, più vedo i loro film e più mi convinco che siano l’antagonismo e la residualità a costituire il nucleo del loro fare cinema: la tenace umanità interstiziale de Il castello o di Materia oscura resiste alla violenza del potere così come la marmorea materialità de L’infinita Fabbrica del Duomo resiste alla superbia della significazione umana (significare nel senso di “signum facere”: fabbricare appositamente un segno).

Così, alla storia ufficiale del Duomo, raffigurato apertamente come un gigantesco organismo che possiede i propri ritmi, i propri rumori e le proprie funzioni quasi fisiologiche (si presti attenzione allo sgocciolamento della cera, raccolta quotidianamente alla stregua di deiezioni animali), si contrappone la storia segreta di questa indocilità della materia segnata dallo scarto, dal deperimento, dalla caducità (le sculture e i frammenti lapidei eccessivamente corrosi vengono accantonati nel cimitero delle statue). Scandito da ventisette didascalie ricavate dai documenti custoditi nell’archivio della Fabbrica e cadenzato dal metronomo di un montaggio che genera una musicalità visiva pullulante di ritmi interni, L’infinita Fabbrica del Duomo si sviluppa in quattro movimenti ascendenti intrecciati tra loro (le cave, l’archivio, il cantiere e la cattedrale), lasciando che il motivo cimiteriale s’insinui lieve tra una sezione e l’altra come un Leitmotiv (o meglio una Totentanz) sommessamente dissacrante - una sorta di disadorna vanitas che contrasta la monumentale grandiosità dell’opera, riportando in terra l’anelito celeste. Ricondurre la sfrenata ambizione umana alla concretezza minerale della natura, la maestosità della cattedrale alla dimensione originaria della conchiglia, come chiarisce definitivamente la penultima didascalia: “Sicché, scolpito in questo grandioso monumento, noi vediamo il racconto di tante generazioni, ma anche il segno profondo della natura che impiega 10.000 anni per trasformare un deposito di conchiglie in una vena di marmo rosa. Il Duomo è cresciuto da una conchiglia, le conchiglie sono cattedrali”. Il segreto del cinema di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi? Immagini che racchiudono il mondo senza rinchiuderlo nell’angusta cornice di un quadro.

Già pubblicata su www.spietati.it.

martedì 17 novembre 2015

LOVE

 


“Mattino del 1º gennaio, il telefono squilla. Murphy si sveglia accanto alla giovane moglie e al figlio di due anni. Ascolta un messaggio lasciato alla segreteria telefonica: tremendamente angosciata, la madre di Electra vuole sapere se Murphy ha notizie di sua figlia scomparsa da tempo, poiché teme che le sia capitato qualcosa di grave. Nel corso di una lunga giornata piovosa, Murphy si ritrova solo nel suo appartamento a ricordare la sua più grande storia d’amore: due anni con Electra. Una passione ardente piena di promesse, giochi, eccessi ed errori…” (dal presskit).




Nel corso degli anni ho sognato di fare un film che riproducesse al meglio la passione amorosa di una giovane coppia in tutti i suoi eccessi fisici ed emotivi. Una sorta di amour fou simile alla quintessenza di ciò che i miei amici o io stesso abbiamo potuto vivere. Un melodramma contemporaneo in grado d’integrare molteplici scene d’amore e capace di superare la ridicola barriera che impedisce di mostrare sequenze apertamente erotiche in un film normale (…). Volevo filmare ciò che il cinema, per ragioni commerciali o legali, può permettersi raramente, vale a dire filmare la dimensione organica dello stato amoroso. Eppure, nella maggioranza dei casi, è qui che risiede l’essenza stessa dell’attrazione all’interno di una coppia. Il partito preso consisteva quindi nel mostrare una passione intensa sotto una luce naturale, dunque animale, ludica, orgasmica e lacrimale. Contrariamente ai miei progetti precedenti, per una volta non si tratta che di violenza sentimentale ed estasi amorosa.

Affaire Love

La prima questione da affrontare senza indugi nell’affaire Love riguarda l’assegnazione a scoppio ritardato del divieto ai minori di 18 anni (nelle prime due settimane di programmazione, il film è uscito in 33 sale francesi con un divieto ai minori di anni 16). Non tanto per capriccio morboso o per un’indignata difesa della libertà di espressione, quanto per mettere in evidenza un’anomalia che interessa attualmente il sistema francese di assegnazione dei visti di distribuzione cinematografica (Visa d’exploitation). Come funziona questo sistema? L’organo consultivo deputato all’assegnazione dei visti è, in prima istanza, la Commissione di classificazione delle opere cinematografiche (Commission de classification des œuvres cinématographiques): se non insorgono complicazioni, l’indicazione proposta dalla commissione viene pacificamente approvata dal Ministero della Cultura e della Comunicazione che, per mano del ministro, la conferma e la rende effettiva. Questa la prassi consolidata da decenni. Ora, dal momento che la commissione di classificazione è diretta emanazione del Centro Nazionale del Cinema e dell’Immagine Animata (CNC) ed è composta in maggioranza da professionisti che operano nel settore, le indicazioni che essa suggerisce, improntate al rispetto delle opere e alla protezione della creazione artistica, possono essere considerate eccessivamente permissive e indulgenti, se non addirittura lassiste, da chi reclama un’applicazione letterale e draconiana della legge in materia (l’articolo 227-24 del Codice penale francese proibisce formalmente la diffusione ai minori di un messaggio “a carattere violento, pornografico, incitante al terrorismo o di natura tale da offendere gravemente la dignità umana”, contemplando la punizione a tre anni di reclusione e la sanzione pecuniaria di 75000 euro).

È proprio questa discrezionalità della commissione, una discrezionalità rispettosa delle opere e ragionevolmente duttile nell’applicazione della normativa in materia, a prestare il fianco alle controversie. Eppure l’anomalia non risiede nella presunta elasticità della commissione di classificazione - che per le frange più reazionarie equivale al lassismo - o in un ipotetico richiamo all’inflessibile applicazione della legge da parte del ministero, poiché il più delle volte quest'ultimo si limita ad avallare le indicazioni suggerite dalla prima. L’anomalia consiste invece nell’eventualità che una terza parte, reclamando maggior rigore applicativo, contesti la correttezza del visto erogato dagli organi competenti e interpelli altri organi istituzionali (il tribunale amministrativo e, in ultima istanza, il Consiglio di Stato) per procedere a un riesame del film e all’attribuzione di una classificazione più severa. Perché parlo di anomalia e non di semplice risorsa democratica? Perché negli ultimi anni Promouvoir, un’associazione cattolica fondata nel 1996 la cui finalità consiste nella “promozione dei valori giudaico-cristiani in tutti i domini della vita sociale”, ha più volte contestato le decisioni di commissione e ministero, ottenendo più volte dal Consiglio di Stato la revoca dei visti ministeriali e l’assegnazione di classificazioni più rigorose (dal divieto ai minori di 16 anni al visto “X” o all’interdizione ai minori di 18) per pellicole quali Baise-moi (1999), Ken Park (2003), Saw 3D (2010), Nymphomaniac (2013) e, appunto, Love.

In sostanza, la situazione attuale è questa: l’associazione di estrema destra Promouvoir, capitanata dall’avvocato omofobo e ultratradizionalista André Bonnet, tiene sotto scacco il Ministero della Cultura e la Commissione di classificazione del CNC, attaccando le loro deliberazioni ogni qual volta le giudichi troppo permissive o condiscendenti. Questa situazione, definita da Vincent Maraval, patron di Wild Bunch, vero e proprio “terrorismo morale” ha accompagnato la vicenda di Love fin dall’inizio, giacché il ministro (o la ministra che dir si voglia) della cultura in carica Fleur Pellerin, prevedendo la reazione di Promouvoir, non ha avallato la prima raccomandazione della commissione di vietare il film ai minori di 16 anni, ma, caso rarissimo, ha chiesto alla commissione stessa di riesaminare il film con l’auspicio di ottenere una classificazione più severa. Oltre all’evidente cerchiobottismo del ministro (perché non ha semplicemente scelto di non seguire l’indicazione, anziché chiedere alla commissione di cambiare parere?), si spalanca una questione letteralmente surreale: che senso ha mantenere in vita un’apposita commissione composta in maggioranza da professionisti del settore, se a stabilire la classificazione delle pellicole è in ultima analisi un’associazione reazionaria?

Cionondimeno, per la seconda volta e con regolare votazione, la commissione ha confermato il divieto ai minori di 16 anni senza lasciarsi influenzare dalla richiesta di revisione del ministro o farsi intimidire dalle prevedibili reazioni di Promouvoir. Reazioni che, naturalmente, non si sono fatte attendere: Love è uscito nelle sale francesi mercoledì 15 luglio col divieto ai minori di 16 anni e il giorno successivo l’associazione di André Bonnet ha richiesto un provvedimento d’urgenza al Tribunale Amministrativo di Parigi per contestare il visto di distribuzione del film. Il nuovo esame (e siamo a quota tre) del tribunale amministrativo ha sospeso, in data giovedì 30 luglio, il visto ministeriale e, in ragione della presenza nel film di “scene di sesso non simulate”, ha ufficialmente innalzato il divieto ai minori di 18 anni, non senza qualche complicazione per le 33 sale che stavano programmando Love da due settimane con la classificazione improvvisamente annullata. La parola finale è comunque spettata alla più alta corte amministrativa francese: il Consiglio di Stato, interpellato con un ricorso in cassazione presentato nel mese di agosto dalle società di produzione e distribuzione del film, nonché dal gabinetto del ministro Fleur Pellerin, che nel frattempo ha assunto posizioni meno cerchiobottiste, difendendo con prudenza ma sempre più apertamente - a 20:48 si parla del film di Noé e della temibile associazione di Bonnet - la libertà di creazione artistica e l’operato della commissione di classificazione. L’affaire Love si chiude definitivamente mercoledì 30 settembre quando, esaminato nuovamente il film lunedì 14 settembre (quarto vaglio istituzionale in poco meno di tre mesi: un autentico record), il Consiglio di Stato respinge il ricorso e conferma il divieto ai minori di 18 anni con la seguente motivazione: “il giudice dei provvedimenti d’urgenza del tribunale amministrativo non ha commesso errore sospendendo parzialmente il visto di distribuzione in base al fatto che Love avrebbe dovuto essere vietato ai minori di 18 anni (senza classificazione “X”) in ragione delle numerose scene di sesso non simulate che esso comporta”.

Tirando le somme, l’intera controversia sorta intorno all’ultimo film di Gaspar Noé ha finito per concentrarsi sulla presenza di “scene di sesso non simulate” (l’articolo R. 211-12 del Codice del cinema e dell’immagine animata prevede difatti il divieto ai minori di 18 anni nel caso in cui l’opera comporti scene di tale natura), sollevando un importante problema di carattere normativo. Dal momento che questo criterio grossolanamente quantitativo e automatico (presenza di scene di sesso non simulate = divieto ai minori di 18) risulta palesemente inadeguato alla realtà contemporanea, da una parte per la frequenza sempre maggiore di film comprendenti scene di sesso esplicito a finalità non masturbatoria (basti pensare a pellicole di Catherine Breillat, Bruno Dumont, Bertrand Bonello, Philippe Grandrieux, Jean-Claude Brisseau, Alain Guiraudie e Abdellatif Kechiche) e, dall’altra, per il ruolo sempre più marginale del cinema nella formazione sessuale degli adolescenti (ruolo rimpiazzato dal possesso di un dispositivo informatico e dall’accesso a un motore di ricerca qualsiasi), il solo modo di correggere l’anomalia del sistema di classificazione risiede nella revisione dei criteri che disciplinano la regolamentazione. A fare problema, insomma, è la necessità sempre più stringente di stabilire una distinzione tra scene di sesso non simulate e scene a vocazione dichiaratamente pornografica. È per questo motivo che, sulla scorta dell’affaire Love, il ministro della cultura Fleur Pellerin ha annunciato l’avvio di una riflessione per la riforma del sistema concertata con la commissione di classificazione, con rappresentanti del mondo del cinema, specialisti nella protezione della gioventù e neuropsichiatri infantili. Entro gennaio 2016 Jean-François Mary, presidente della commissione del CNC, dovrà presentare al ministro delle proposte pianificate per l’elaborazione di una regolamentazione più adatta alla realtà cinematografica attuale. In definitiva l’affaire Love, in maniera non troppo dissimile dall’affaire Baise-moi (in seguito al quale è stato reintrodotto il divieto ai minori di 18 anni, precedentemente sospeso dal ministro della cultura Jack Lang), avrà con ogni probabilità decisive ripercussioni sull’intero sistema francese di classificazione delle opere cinematografiche.

Malgrado il suo piccolo budget, questo film colorato dal formato cinemascope è stato girato in rilievo grazie a nuove videocamere. Spero che questa scelta renderà l’esperienza più immersiva per gli spettatori. Affascinato dalle immagini in rilievo, continuo da anni a scattare foto in 3D, analogiche o digitali. La posta in gioco è ancora più inquietante quando si filma una persona cara la cui vita sta svanendo. Rivedendo le immagini, si ha la sensazione di aver trattenuto una parte quasi vivente della persona dentro una piccola scatola. Il rilievo dà l’impressione illogica e infantile di aver afferrato un momento del passato molto meglio di quanto possa farlo un’immagine piatta. Siccome questo film racconta un amore perduto, ho pensato che il rilievo potesse aumentare l’identificazione dello spettatore col personaggio e la sua condizione nostalgica. Analogamente, la presenza di una voce over o la scelta delle musiche sono lì per riflettere meglio lo scacco emotivo del protagonista, tanto smarrito nei suoi atti quanto nei suoi pensieri.

Love Affair

Il lungo preambolo sulla controversia legale non costituisce una semplice curiosità, poiché, oltre a mettere in luce le peculiarità del sistema francese di assegnazione dei visti, evidenzia uno dei tratti distintivi di Love, anzi forse il suo tratto più saliente, ovvero l’inscindibilità della componente erotica da quella narrativa e sentimentale (Love is Noé’s attempt to marry sex and story). In maniera ancor più marcata e indissociabile di quanto avveniva in alcune pellicole di Catherine Breillat, Bruno Dumont, Philippe Grandrieux o Jacques Nolot, nell’ultimo film di Gaspar Noé configurazione narrativa, modulazione sentimentale e rappresentazione erotica sono visceralmente, geneticamente inseparabili: è letteralmente impossibile alterare uno solo di questi aspetti del film senza snaturarlo completamente o intaccarne in profondità la fisionomia complessiva. Ed è proprio questa omogeneità di fondo, simile a un'osmosi molecolare, ad aver posto il problema della classificazione in termini cogenti e ineludibili. In questo senso uno dei punti di riferimento di Love è The Defiance of Good (1975) di Armand Weston (la locandina del quale campeggia su una parete della camera di Murphy), uno dei rari porno-horror degli anni ’70 in cui progressione drammatica, sessualità esplicita e tensione emotiva non seguono percorsi divergenti e discordanti, ma si integrano congiuntamente ed efficacemente nel disegno narrativo.

L’origine di Love risale a più di quindici anni fa, precisamente al periodo successivo a Seul contre tous (1998), quando Gaspar Noé, impossibilitato a realizzare in tempi brevi Enter the Void per motivi tecnici, economici e logistici, decide di posporre provvisoriamente il progetto e ripiegare su un piccolo film intimista, una storia d’amore con copiosa rappresentazione del sesso sullo schermo. Un giorno del giugno 2001 Noé incrocia Vincent Cassel in un locale e gli parla del nuovo progetto, salutato da quest’ultimo con entusiasmo e intraprendenza (sia Cassel che la moglie Monica Bellucci apprezzavano i lavori precedenti di Noé), fissando nel mese di agosto il periodo adatto alle riprese. Noé e Cassel interpellano dunque i due produttori Richard Grandpierre e Christophe Rossignon (L’odio, Il patto dei lupi), che si dicono realmente interessati alla proposta, e la produzione del film inizia a ingranare con Studio Canal come compagnia di sostegno. Ma quando Vincent e Monica leggono il trattamento di sette pagine prive dei dialoghi (da improvvisare totalmente durante le riprese) vengono spaventati dall’eccessiva intimità della vicenda, revocando la loro partecipazione al film. Per non perdere la favorevole congiuntura produttiva, Noé propone allora di realizzare un altro film, un rape and revenge raccontato al contrario: è così che dalle ceneri di Danger (il titolo originale del trattamento rifiutato) nasce Irréversible (2002). Grazie al successo commerciale di Irréversible, Noé può finalmente girare Enter the Void, pellicola molto più costosa e molto meno fortunata dal punto di vista degli incassi. A sedici anni di distanza, infine, Noé ritorna al trattamento di Danger, che diventa Love.

Film dal budget decisamente meno impegnativo di Enter the Void (costato più di 10 milioni di euro), Love (costato tra i 2 e i 3 milioni di euro) è stato realizzato grazie a una coproduzione con investimenti privati che ha visto tra i principali artefici Vincent Maraval di Wild Bunch: a questa rischiosa sinergia si sono aggiunti in extremis gli aiuti del CNC per l’utilizzo del 3D (aide aux nouvelles technologies en production). Preparato e portato a termine in soli 9 mesi (da settembre 2014 a maggio 2015) e proiettato in anteprima in un’affollatissima Séance de minuit al 68º Festival di Cannes, Love è stato girato in 3D per più motivi: in primo luogo perché Noé aveva già dimestichezza con questa tecnica (da anni scatta fotografie stereoscopiche con un piccolo apparecchio e registra immagini in rilievo con una videocamera Panasonic 3D a basso costo, videocamera che peraltro viene utilizzata in una sequenza iperstereoscopica del film); in secondo luogo, importante quanto il primo se non di più, poiché Benoît Debie, direttore della fotografia di fiducia di Noé a partire da Irréversible, aveva appena finito di girare Every Thing Will Be Fine e, forte dell’esperienza acquisita sul set di Wim Wenders, ha convinto l’amico Gaspar che realizzare Love in 3D sarebbe stato meno complicato del previsto (grazie a un sistema ottico stereoscopico più leggero di quello utilizzato per il film di Wenders).

Sulle pagine del quotidiano elvetico Le Temps, Marie-Claude Martin scrive: “Come Irréversible che raccontava una storia di stupro al contrario, Love è una macchina per risalire il tempo. Come sempre, Gaspar Noé cerca l’origine, questo tempo originario in cui niente è stato ancora alterato, nel quale tutto è puro, semplice, infantile. Solo il ritorno all’indietro e su di sé permette di raggiungere - sapendolo definitivamente perduto - questo stato precedente alla corruzione”. L’osservazione di Marie-Claude Martin coglie perfettamente nel segno: se per Noé “il tempo distrugge tutto” (Le Temps Détruit Tout), la sola risorsa a disposizione per contrastare o sospendere questa opera devastatrice risiede nello sfaldamento, nello smantellamento della linearità cronologica e nella regressione verso il luogo immaginario e primordiale dell’origine, là dove ogni cosa è colta in statu nascendi, nel momento aurorale del suo manifestarsi. L’inversione diviene una figura della regressione allo stato anteriore alla degradazione e al disfacimento: i finali di Irréversible, Enter the Void e Love, tre pellicole concepite più o meno nello stesso periodo e indissolubilmente legate tra loro, rispondono a questa logica regressiva, amniotica e lustrale. L’epilogo nella vasca da bagno di Love, benché suscettibile di una lettura simbolica d’impronta mortuaria (le tonalità purpuree che impregnano l’inquadratura, il freeze frame cadaverico che paralizza i corpi avvinghiati e la didascalia-epitaffio THE END a caratteri cubitali), conclude quella che potrebbe essere plausibilmente definita “trilogia della regressione”. Una trilogia che, per quanto contraddistinta dallo stesso movimento retrogrado, porrebbe di volta in volta l’accento su elementi diversi della dinamica regressiva: la violenza in Irréversible, la morte in Enter the Void e, infine, il sentimento amoroso in Love. Non è affatto fortuito che Noé, interpellato sull’influenza esercitata da 2001: Odissea nello spazio e da Kubrick in generale sul suo cinema, abbia risposto in questi termini: “2001: Odissea nello spazio è un film sensoriale, ma è soprattutto un film molto cerebrale, meccanico, che sviluppa un discorso sull’umanità, sull’intelligenza artificiale e altre cose ancora. I miei film sono molto mammiferi, i suoi sono più costruiti con la neocorteccia, dunque la parte del cervello che serve al linguaggio e alla previsione del futuro, i miei film parlano più delle pulsioni mammifere - o rettili - dell’uomo e della donna”.

Ancora Marie-Claude Martin: “E il 3D, direte voi? Contro ogni aspettativa, è la bella sorpresa di Love. Venduta come la promessa allettante di un’immersione totale, il 3D è meno un invito al voyeurismo che uno scrigno protettivo. […] Il 3D ha la stessa funzione: offrendo l’artificio di una profondità di campo, mettendo i corpi in rilievo, giocando sull’aspetto teatrale, mette a distanza più di quanto ci faccia penetrare nell’intimità dei corpi. I quali, bagnati da una luce alonata, sono come protetti dagli sguardi che potrebbero sporcarli”. Girato con un sistema a due videocamere 3D, Love deve praticamente tutta la concezione del suo impianto visivo all’arrangiamento tridimensionale: impossibile afferrare e comprendere completamente la strutturazione spaziale delle inquadrature, la collocazione dei punti macchina, la gestione delle distanze tra i personaggi e la resa volumetrica dei corpi con una visione 2D. Giusto a titolo di esempio: quella che potrebbe sembrare una scelta squisitamente stilistica come la predilezione per le inquadrature fisse e l’uso parsimonioso dei movimenti di macchina è invece il precipitato estetico della tecnica di ripresa (dal momento che in 3D i movimenti di camera risultano eccessivamente vertiginosi e nauseanti, Gaspar Noé e Benoît Debie, entrambi anche interpreti nei panni del gallerista Noé e dello sciamano Yuyo, hanno rinunciato ai virtuosismi cinetici di Enter the Void e hanno al contrario adottato una misura visiva adatta a esaltare la profondità di campo e l’iscrizione statuaria dei corpi nello spazio). Detto più chiaramente, la sola versione di Love in cui il film canta e incanta è quella in 3D: lo “scrigno protettivo” di cui parla Marie-Claude Martin, uno scrigno che mette al riparo la visione dal sentimentalismo e dal voyeurismo, viene schiacciato e frantumato dall’appiattimento della versione bidimensionale (altro esempio emblematico: nella versione 3D, la frequente collocazione di Murphy/Karl Glusman nella soglia tra due stanze possiede naturalezza e spontaneità, mentre in quella bidimensionale acquista un artificioso sapore di incorniciatura metacinematografica).

Strutturato sull’esperienza del ricordo di Murphy (l’espediente narrativo che permette a Noé lo zigzagante percorso a ritroso), Love abbraccia deliberatamente codici visivi che si discostano in modo eclatante dal canone pornografico: anziché concentrarsi esclusivamente sui genitali e sui particolari prestazionali, le inquadrature concedono ampio respiro all’integralità fisica (la scena di apertura sulle note della Gnossienne nº 3 di Satie, la sequenza del threesome su quelle di Maggot Brain dei Funkadelic), si assestano sulle parti superiori dei corpi (l’amplesso che segue al “Can you show me how tender you can be?” sussurrato da Electra/Aomi Muyock a Murphy sulle note dell’indimenticabile Lucifer Rising Take Two di Bobby Beausoleil) oppure si stringono addirittura sui soli volti ripresi in primo piano (Murphy e la sua ex Lucile/Xamira Zuloaga intenti a baciarsi sulle note di Always Returning di Brian Eno). Contrariamente a quanto ipotizzato nelle fasi di scrittura e preparazione (inizialmente Noé avrebbe voluto fare un film pressoché privo di dialoghi, con sole musiche di accompagnamento e voce over di Murphy), grande spazio è stato lasciato all’improvvisazione, sia nelle parti dialogate (si pensi al feroce litigio nel taxi tra Murphy ed Electra) che in quelle performative (la sequenza, già divenuta di culto, del full frontal cumshot girato alla fine del primo giorno di riprese, con tanto di richiesta esplicita di Karl Glusman a Noé di togliersi dal suo campo visivo per non inibire l'eiaculazione).

Attenzione però a non scambiare Murphy per l’alter ego di Gaspar Noé: la svista più imperdonabile che si potrebbe commettere (stortura che si è puntualmente verificata) nei confronti di Love consisterebbe proprio nel confondere il punto di vista di Murphy con quello del film nel suo complesso e di lì (il passo è breve) con quello di Noé stesso. Nonostante porti il cognome materno del regista, ne indossi le magliette e la giacca militare à la Travis Bickle e benché le pareti della sua camera siano tappezzate di poster e suppellettili di proprietà del cineasta (tra i quali spicca il modellino del LOVE HOTEL già utilizzato in Enter the Void), Murphy appartiene a pieno titolo alla stirpe dei protagonisti sgradevoli, inconcludenti e caricaturali ai quali Noé ci ha abituati fin dal suo esordio (GN: “My characters are never heroic. They are mostly lost and trying to find the right door to open and they end up opening the wrong doors”). Come il boucher interpretato da Philippe Nahon in Carne (1991) e Seul contre tous (1998), Murphy è il tipico antieroe di Noé in cui si accumulano velenosamente aspirazioni velleitarie (si dichiara un filmmaker ma le sue pompose ambizioni non trovano alcun riscontro effettivo), atteggiamenti stereotipati (propina indistintamente le stesse formule sentimentali all’ex fidanzata Lucile e a Electra, spingendosi addirittura a suggerire lo stesso nome per il figlio prima a Electra e, nell’inquadratura immediatamente successiva, a Omi/Klara Kristin) e maschilismo tracotante (l’aggressione al gallerista insolentemente interpretato dallo stesso Noé con parrucca petersellersiana, l’interrogatorio in centrale col poliziotto interpretato in modo formidabile daVincent Maraval al suo esordio nei panni di un flic lussurioso).

Il profondo legame tra il cialtronesco protagonista di Love, il macellaio xenofobo di Carne/Seul contre tous e il giovane Oscar di Enter the Void si oggettiva inoltre nel risentito vittimismo della voce over, permeata di un’acredine e di un’autocommiserazione che, pur ammantate di nostalgica rassegnazione, richiamano esplicitamente le rancorose recriminazioni del boucher nei confronti della ributtante compagna (boucher: “Un salame di merda. Un vino di merda e una famiglia di merda in un paese di merda”; Oscar: “Ne ho abbastanza di questa puttana (…) Vivere con una donna è come condividere il letto con la CIA”) e la tossica autoindulgenza dell’inconsapevole morituro di Enter the Void (Oscar, poco prima di accendersi una pipa di DMT, bisbiglia paradossalmente: “I know I’m not a junkie”; Murphy, sotto oppio, mormora tra sé e sé: “I feel like a junkie”). Quelli di Noé, insomma, sono sempre protagonisti che, nonostante l’impronta soggettiva impressa ai film, ingaggiano lo spettatore in una dinamica giocata sul filo dell’identificazione e della repulsione: se gli smacchi che vivono incoraggiano fortemente l’immedesimazione, le loro meschinità e i loro egoismi ostacolano altrettanto fortemente l’adesione incondizionata. Sollecitato e intralciato al tempo stesso, lo spettatore è dunque preso in un’impasse che neutralizza i convenzionali e rassicuranti meccanismi di partecipazione emotiva. Messo fuori causa l’apparato psicologico, il cinema di Noé è dunque libero di sferrare l’offensiva sul fronte sensoriale e pulsionale della rappresentazione cinematografica (“I miei film parlano delle pulsioni mammifere - o rettili - dell’uomo e della donna”). E benché Love non costituisca il capo d’opera del cineasta franco-argentino (alcuni stilemi come le didascalie a tutto schermo e gli stacchi in nero “effetto diaporama” sono qui adoperati in chiave vezzosamente ornamentale), l’ultimo film di Gaspar Noé rappresenta l’ennesima testimonianza di un talento espressivo capace di lasciare un segno indelebile nel panorama internazionale con proposizioni cinematografiche di profonda originalità e inesausta radicalità. Uno dei rari casi in cui la cinefilia non fagocita l’inventiva e la vitalità nelle soffocanti spire del miserabile metacinema.

Questo, tra tutti i miei film, è quello più vicino a ciò che ho potuto conoscere dell’esistenza e anche il più malinconico.

Un ringraziamento a Lorenzo Baldassari per la consulenza tecnica.

Già pubblicata su www.spietati.it.

martedì 3 novembre 2015

DHEEPAN - UNA NUOVA VITA

 
 
 
 
 
"In fuga dalla guerra civile in Sri Lanka, un ex guerriero Tamil, una giovane donna e una bambina si fingono una famiglia. Accolti come rifugiati in Francia, vanno ad abitare in una banlieue difficile dove, pur conoscendosi appena, cercano di vivere in armonia." (dal pressbook). 
 
 
 
 
 
 
 
 
Settimo lungometraggio di Jacques Audiard, Dheepan si è aggiudicato la Palma d’oro al Festival di Cannes del 2015. Se la ricompensa suprema arriva solo oggi, il figlio d’arte del celebre dialoghista, sceneggiatore e romanziere Michel Audiard è già stato premiato a Cannes nel 1996 con Un héros très discret (migliore sceneggiatura) e nel 2009 con Un prophète (Grand Prix Speciale della Giuria). Entrambi i film precedentemente ricompensati condividono con quest’ultimo, a differenza di Un sapore di ruggine e ossa, la tipica ossessione audiardiana: quella di un talento sopito o nascosto che si risveglia nel protagonista a causa della pressione ambientale e delle regole di sopravvivenza dettate dal microcosmo in cui egli si trova accidentalmente gettato - si pensi anche al bellissimo noir d’esordio del 1994 Regarde les hommes tomber. Questa volta, tuttavia, l’accento è posto più sulla forza che spinge il protagonista a ridestare il talento dormiente che sull’eccezionalità del talento stesso: in Dheepan l’uomo che non amava più la guerra, come recitava il sottotitolo originale, diventa l’uomo che torna alla guerra per amore/amare. E stavolta, inoltre, l’impianto drammaturgico cambia sensibilmente rotta rispetto alle costruzioni controllatissime cui Audiard ci ha abituati (Un sapore di ruggine e ossa rappresenta il culmine di questa signoria autoriale): tutta la parte sentimentale della sceneggiatura è stata scritta lasciando dei vuoti da colmare durante le riprese, che hanno dunque avuto il compito di sviluppare i frammenti lasciati allo stato embrionale nello script.

Il risultato definitivo, insomma, è stato fortemente influenzato dalle dinamiche di immedesimazione degli interpreti sul set, motivo per cui si è reso necessario un metodo di tournage diverso dal solito: non più ciak centellinati ma numerose riprese per ogni scena, in modo da lasciare ai tre attori principali (Antony, la piccola Claudine e Kali, non professionisti a eccezione di quest’ultima, attrice teatrale di Madras) la libertà di raggiungere e aggiungere sfumature nuove e sorprendenti. Ma se il tentativo di variare registro rispetto alla scrittura ipersorvegliata di Un sapore di ruggine e ossa è indubbiamente apprezzabile, questa stessa plasticità progettuale confida eccessivamente nell’effetto di autenticità indotto dal metodo aperto, trascinando il film nelle secche di una convenzionalità semplificatoria che tiene l’intera vicenda malamente in bilico sul fondale del miserabilismo benevolente (Dheepan e Yalini convertono increduli in rupie i 500 euro offerti alla donna per fare la domestica) e del sentimentalismo pedagogico (la piccola Illayaal che avvicina i due falsi genitori e istruisce affettivamente la madre improvvisata). Non soccorre, infine, il candido escapismo dell’epilogo che, pur ammantato da un alone illusorio di sapore fantastico-favolistico che ne smorza vistosamente la portata realistica, propone l’idillio inglese come ottenimento di una felicità finalmente priva di ostacoli e complicazioni (un vero figlio, qualche amico, un barbecue). E se l’intento di Audiard, scaturito dal guizzo germinale di realizzare un remake di Cane di paglia in una banlieue francese e assunta come indicazione ideale le Lettere persiane di Montesquieu, consisteva nel “ricavare l’immagine eroica da una situazione derisoria” (JA), Dheepan oggettiva lacunosamente e solo a tratti questo proposito, il film barcamenandosi goffamente tra squarci surreali (l’apparizione di Dheepan dall’oscurità col cerchietto a luci intermittenti), siparietti didascalici (il dialogo in lingua tamil con l’interprete per la richiesta di asilo), proclami metacinematografici (Dheepan e Yalini alla finestra: “Guarda, sembra di stare al cinema!”) e patetismi d’accatto (Dheepan che dona a Yalini i fiori appena ricevuti da Illayaal). Titoli di testa una spanna sopra il resto della pellicola.
 
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mercoledì 21 ottobre 2015

SUBURRA

“Nell’antica Roma, la Suburra era il quartiere dove il potere e la criminalità segretamente si incontravano. Dopo oltre duemila anni, quel luogo esiste ancora. Perché oggi, forse più di allora, Roma è la città del potere: quello dei grandi palazzi della politica, delle stanze affrescate e cariche di spiritualità del Vaticano e quello, infine, della strada, dove la criminalità continua da sempre a cercare la via più diretta per imporre a tutti la propria legge. Il film è la storia di una grande speculazione edilizia, il Water-front, che trasformerà il litorale romano in una nuova Las Vegas. Per realizzarla servirà l’appoggio di Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino), politico corrotto e invischiato fino al collo con la malavita, di Numero 8 (Alessandro Borghi), capo di una potentissima famiglia che gestisce il territorio e, soprattutto, di Samurai (Claudio Amendola), il più temuto rappresentante della criminalità romana e ultimo componente della Banda della Magliana. Ma a generare un inarrestabile effetto domino capace di inceppare definitivamente questo meccanismo saranno, in realtà, dei personaggi che vivono ai margini dei giochi di potere come Sebastiano (Elio Germano), un PR viscido e senza scrupoli, Sabrina un’avvenente escort (Giulia Elettra Gorietti), Viola (Greta Scarano) la fidanzata tossicodipendente di Numero 8 e Manfredi (Adamo Dionisi) il capoclan di una pericolosa famiglia di zingari.” (dal presskit). 

Esistono almeno due modi di considerare Suburra: il primo - che rispecchia in maniera ragionevolmente fedele l’atteggiamento di chi scrive - consiste nel rimanere sostanzialmente indifferenti al cinema squadernato dal film: cinema bullo e romanocentrico, roboante e pieno zeppo di facce note, sempre uguale a se stesso perché sempre un po’ diverso. Un cinema che mette in scena lo spettacolo della morte ma perfettamente al riparo dalla morte dello spettacolo. Un cinema che racconta il racconto della corruzione pretendendo di raccontare la corruzione stessa. Cinema della mistificazione sistematica, della simulazione invulnerabile: anziché rielaborare la tragedia in narrazione, la spettacolarizza compiacendosi del proprio segno da farsa grottesca. Un cinema in cui ogni elemento è assoggettato e docilmente obbediente al primato della convenzione e della resa effettistica: celebrazione impeccabile di una credibilità esclusivamente stereotipata e caricaturale. Cinema dell’overacting anche quando - soprattutto quando - la recitazione assume pose trattenute e interiorizzate (vedasi Amendola). Cinema del dialetto capitolino come indice di veracità, cinema che scimmiotta modelli americani (Scorsese, Mann, Il cattivo tenente di Abel Ferrara) assimilando stilemi seriali e scaraventandoli in un’impaginazione da graphic novel. Cinema di dialoghi fieramente folkloristici, musiche di rinforzo e montaggi alternati di inossidabile dualismo (carezza e bacio al figlio dormiente, incatenamento e lancio del cadavere zavorrato). Cinema totalmente innocuo, infine, perché lascia lo spettatore esattamente dove e come si trovava prima di essere sequestrato per 130’. Risultato? L'indifferenza più imperturbabile. Questo l’atteggiamento di chi non accetta le regole del gioco postulate dal film di Stefano Sollima.

Il secondo modo, legittimo quanto il primo e forte degli stessi titoli di nobiltà (la facoltà di incanaglirsi liberamente è garantita dalla carta dei diritti dello spettatore), risiede nell’accettare più o meno consapevolmente le regole del gioco - altri le chiamerebbero senza esitazioni regole di genere - e godersi lo spettacolo sontuosamente allestito da Sollima, Petraglia, Rulli, Bonini e De Cataldo, abilmente spalleggiati dalla poderosa fotografia di Paolo Carnera (illuminazione e cromatismi di indiscutibile virtuosismo), dalle certosine scenografie di Paki Meduri (dall’emiciclo parlamentare alle stanze vaticane, passando per ville al neon o arredi sfarzosamente eclettici) e dal montaggio incalzante di Patrizio Marone (l’orchestrazione visiva della sparatoria nel supermercato, l’implacabilità della carneficina nelle baracche dei pescatori). Un atteggiamento, questo, che vedrà plausibilmente inverarsi in Suburra un affresco nero di sconcertante attualità in grado di reinventare la cinecriminalità italiana, trasportando sul grande schermo l’irruenza ritmica della migliore fiction e trascinando lo spettatore, con tecnica di rara maestria ma sempre al servizio dell’emozione e dell’intensità drammatica, nel melmoso abisso di un’Apocalisse che non salva niente e nessuno. Un universo marcio e dai giorni contati nel quale Favino, Germano e Amendola si superano letteralmente in prove attoriali da applausi a scena aperta, peraltro affiancati da impressionanti interpreti della nuova generazione quali Alessandro Borghi, Giacomo Ferrara, Giulia Elettra Gorietti e, soprattutto, Greta Scarano, che con la sua Viola dà vita a un personaggio indomito e tormentato capace di riparare i torti subiti con una vendicatività tanto furente quanto inesorabile. Una guerra senza quartiere e senza esclusione di colpi, infine, irrobustita dalle sonorità dream pop e shoegaze degli M83. Se si sta al gioco, insomma, ci si gode lo spettacolo di questa accattivante “Settimana dell’Apocalisse” con voluttuosa e più che soddisfacente adesione.

Un terzo atteggiamento, puramente ipotetico ma verosimilmente più interessante dei due sopra sbozzati, si lascia infine sollecitare (e solleticare) dalla massiccia presenza di segnali necrotici che, in maniera più o meno deliberata, costellano il corpo e i corpi di Suburra. Una fitta serie di ferite mortali inferte sul tessuto filmico che, colpendo senza pietà i corpi depositari di tradizioni cinematografiche e pratiche consolidate dell’audiovisivo, fanno piazza pulita delle concezioni incarnate da questi ectoplasmi in carne e celluloide. Si tratta di una lettura sintomatica che, praticando una sorta di necroscopia sulla salma Suburra, rileva una lunga lista di cadaveri eccellenti. Innanzitutto il cinema italiano dagli anni ’80 in poi, sacrificato nella doppia eliminazione di Antonello Fassari e Claudio Amendola: il primo suicida poiché incapace di comunicare col figlio Sebastiano/Germano (il dialogo tra i due è un campionario di incomprensioni più che un passaggio di testimone: “È stato uno sbaglio farti venire qui”, sussurra rassegnato Fassari), il secondo giustiziato con determinazione punitiva da Viola/Scarano, che liquida il tentativo di patteggiare in extremis del Samurai, palese residuo di una cinecriminalità ormai normalizzata, con un sarcastico “La prossima volta!”. Altro cadavere: le serie televisive, freddate con l’esecuzione di Numero 8/Borghi da parte di quello stesso cinema, il Samurai/Amendola, che soccomberà davanti all’unica sopravvissuta di questa ecatombe cinematografica. Il regolamento di conti non risparmia il cinema italiano contemporaneo, esemplarmente rappresentato dal binomio Favino/Germano: un cinema lasciato in vita soltanto formalmente ma severamente offeso sia sotto il profilo fisico (nell’impietosa e brutale animalità di Filippo Malgradi e nella repellente viscidità di Sebastiano) che sotto quello morale (Favino puttaniere strafatto e politico senza scrupoli, il giovane favoloso Germano convertito alle delizie del lenocinio e della delazione). Un bodycount cinematografico che, avvolto nel sudario di una recitazione smaccatamente necrofila e marionettistica, fa di Suburra uno slasher sotto mentite spoglie: Viola, finalmente trasfigurata in eroina da graphic novel, esce dall’inquadratura lasciando dietro di sé il vuoto, irrorato di pioggia e sangue.

Un ringraziamento a Elisa Schiavi per il suggerimento della terza chiave di lettura.

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giovedì 8 ottobre 2015

SICARIO

 

“In una zona di confine tra Stati Uniti e Messico, dove la legge non conta, Kate (Emily Blunt) è un’agente dell’FBI giovane e idealista, arruolata dal funzionario di una task force governativa per la lotta alla droga (Josh Brolin) per compiere una missione speciale. Sotto la guida di un ambiguo e impenetrabile consulente (Benicio Del Toro) la squadra parte per un viaggio clandestino, costringendo Kate a mettere in discussione tutto ciò in cui crede per riuscire a sopravvivere.” (dal presskit). 






 
Se per il mind game movie Enemy si è resa necessaria una lettura dettagliata e approfondita, per Sicario, altro film di marcata impronta hollywoodiana alla stregua di Prisoners , non mette conto, secondo chi scrive, lanciarsi in elucubrazioni analitiche particolarmente sofisticate. Col settimo lungometraggio del cineasta canadese Denis Villeneuve ci troviamo precisamente in quella zona grigia che, per usare una formula convenzionale e risaputa quanto il film, suolsi definire “blockbuster d’autore” (una di quelle espressioni che non significano assolutamente nulla se non suggerire una paradossale e contraddittoria coesistenza nobilitante di concezione commerciale e tocco autoriale). Non che Villeneuve si impegni poco o che la vicenda di Kate (Emily Blunt), Matt (Josh Brolin) e Alejandro (Benicio Del Toro) non presenti elementi che chiamino in causa la sua principale ossessione (ancora una volta è il caso, inteso come coincidenza e destino, a decidere la sorte degli individui che si affannano inutilmente), ma la scrittura prefabbricata di Taylor Sheridan e l’inviolabile armatura spettacolare del film pregiudicano irrimediabilmente qualsiasi scarto sostanziale dalla norma a cui i thriller statunitensi ci hanno abituati (e assuefatti) ormai da decenni. Quando i dialoghi nelle stanze del potere somigliano a scambi da giardino d’infanzia e la questione di fondo che attraversa la pellicola si riduce alla trita domanda “Il fine giustifica i mezzi?”, c’è poco da fare: non rimane che affidarsi al fenomeno della persistenza retinica e disattivare le sinapsi.
Occorre tuttavia osservare che Denis Villeneuve possiede un indiscutibile talento visivo e, soprattutto, ha il dono di saper creare relazioni conflittuali tra spazio e personaggi che non sviliscono l’ambiente a semplice contenitore dell’azione: basti pensare alla lunga e determinante sequenza iniziale in cui avviene il ritrovamento fortuito della “casa della morte” (la casualità non è mai innocente nei film di Villeneuve, è sempre dominata da un principio superiore) o all’altrettanto corposa sequenza della trasferta a Juárez, nella quale l’ostilità latente che permea l’intero viaggio sfocia in uno scontro a fuoco egregiamente orchestrato. Ma questi pezzi di bravura, ai quali si stenta ad associare la parte notturna girata con le termocamere (di sapore smaccatamente videoludico, scaffale first-person shooter), s’incastonano nel film come sparute gemme su una montatura dozzinale, restando allo stadio di mero ornamento formale. Detto altrimenti, queste esibizioni di destrezza registica non coinvolgono lo stile inteso come trattamento complessivo della materia cinematografica (dalla scrittura alla postproduzione), ma si limitano ad abbellire la parte più esteriore e visibile della pellicola (non sorprende quindi che siano proprio queste due sequenze a essere sfoggiate orgogliosamente nel trailer ufficiale). Lo stesso dicasi per il soundtrack potente e tellurico, quasi industrial/noise in alcuni passaggi, di Jóhann Johansson e per la virtuosistica fotografia di Roger Deakins (alla seconda collaborazione con Villeneuve dopo Prisoners): anziché modellare in profondità la sostanza del film, vi si appiccicano esternamente come gradevoli motivi decorativi. Ciononostante, di fronte a una sceneggiatura che ammannisce a getto continuo situazioni di adamantina convenzionalità (il rapporto tra Kate e il partner Reggie, l’abbordaggio formidabilmente sospetto nel pub dell’irresistibile Ted, le continue e sempre più brutali strigliate di Matt, il regolamento di conti nella casa del boss messicano e, apoteosi finale, la minaccia a mano armata del dannato Alejandro), ogni tentativo di traghettare la pellicola verso destinazioni meno note e frequentate finisce per colare a picco insieme allo spettacolare blocco che trasporta. Presentato in concorso al 68º Festival di Cannes.

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ENEMY



“Adam, un professore discreto, conduce una vita tranquilla con la fidanzata Mary. Il giorno in cui scopre il suo sosia perfetto nella persona di Anthony, un attore stravagante, sente una profonda inquietudine. Inizia allora a osservare a distanza la vita di questo uomo e della sua misteriosa moglie incinta. Poi Adam si mette a immaginare i più fantastici scenari per sé e la propria coppia.” (dal presskit).











Quella che segue non è una recensione, ma un'indagine interpretativa del film in questione. Si suggerisce caldamente la lettura soltanto a visione avvenuta, dal momento che l'indagine stessa, come ogni inchiesta degna di questo nome, non sarebbe stata possibile omettendo snodi centrali e passaggi salienti della trama. Detto altrimenti e più chiaramente, ciò che segue si rivolge esclusivamente a chi abbia visto il film e sia disposto ad avventurarsi - non dico a condividerla, non mi spingerei a tanto - nella mia proposta interpretativa.

Quinto lungometraggio del cineasta canadese Denis Villeneuve, Enemy conferma quanto ipotizzato nella recensione di Prisoners: mentre quest’ultimo era un film spettacolare e pressoché anonimo al servizio della macchina hollywoodiana, Enemy è una produzione canadese indipendente e, soprattutto, una pellicola inequivocabilmente personale (“il mio film più personale”, secondo le dichiarazioni di Villeneuve). Presentato l’8 settembre al Toronto International Film festival del 2013 a due soli giorni dalla proiezione di Prisoners e non distribuito in Italia, Enemy è la libera trasposizione cinematografica del romanzo L’uomo duplicato (2002) di José Saramago (pubblicato in Italia prima da Einaudi e poi da Feltrinelli con la traduzione di Rita Desti). Una trasposizione che lo sceneggiatore Javier Gullón, naturalmente in sintonia con Villeneuve, ha concepito all’insegna del tradimento letterale e della fedeltà sostanziale. Al di là di alcune variazioni più o meno rilevanti (spostamento geografico e cronologico, riduzione di alcune dinamiche relazionali, finale diverso e aggiunta del motivo simbolico del ragno), film e romanzo si specchiano difatti l’uno nell’altro pur mantenendo la loro singolarità e la loro autonomia (cosa che del resto avviene anche nella duplice vicenda raccontata).

Senza dilungarsi eccessivamente sul lavoro di adattamento, corre tuttavia l’obbligo di osservare che il romanzo di Saramago possiede una scrittura palesemente anticinematografica: non tanto per la carenza di elementi visivi o di una linea narrativa ben definita, quanto piuttosto per la sinuosità dello stile letterario. Abolendo la distinzione tra discorso diretto e indiretto e moltiplicando le contorsioni introspettive, lo stile di Saramago poggia il suo baricentro proprio in questa fluidità discorsiva che da una parte permette l’adozione di prospettive variabili (si entra ed esce dalla testa dei personaggi con la stessa disinvoltura con la quale, all’occorrenza, si sorvola l’universo descritto con uno sguardo disincarnato) e, dall’altra, impregna l’intero dettato narrativo della sensibilità tendente al farneticamento immaginativo del protagonista. Non si tratta, a rigore, di un vero e proprio flusso di coscienza, ma di un tappeto discorsivo apparentemente omogeneo che, se osservato da vicino, si rivela composto da fili che lo attraversano a diverse altezze e profondità. Malgrado la lunghezza del brano e a esemplificazione di quanto appena detto, mette conto riportare integralmente il passo del romanzo nel quale Maria da Paz (Mary/Mélanie Laurent nel film), la fidanzata di Tertuliano Máximo Afonso (Adam/Jake Gyllenhaal nel film), pronuncia la frase “Il caos è un ordine da decifrare”, frase posta in esergo al romanzo e attribuita a un immaginario Libro dei contrari da Saramago e collocata subito dopo il prologo con la telefonata materna nel film di Villeneuve.
[Per non appesantire ulteriormente la lettura, il corposo passaggio si trova nel seguente paragrafo.]

“Si sono separati lentamente, lei ha accennato un sorriso, lui ha accennato un sorriso, ma noi sappiamo che Tertuliano Máximo Afonso ha un'altra idea in testa, e cioè sottrarre alla vista di Maria da Paz, il prima possibile, i fogli rivelatori, per cui non c'è da stupirsi che l'abbia quasi spinta in cucina, Vai, vai a fare il caffè mentre io metto un po' di ordine in questo caos, e allora è accaduto l'inaudito, come se non desse importanza alle parole che le uscivano di bocca o come se non le capisse completamente, lei ha mormorato, Il caos è un ordine da decifrare, Cosa, cos'hai detto, domandò Tertuliano Máximo Afonso, che aveva già la lista dei nomi in salvo, Che il caos è un ordine da decifrare, Dove l'hai letto, da chi l'hai sentito, Mi è venuto in questo momento, non credo di averlo mai letto, e, quanto ad averlo udito, sono sicura di no, Ma come mai ti è venuta una frase del genere, Cos'ha di speciale questa frase, Moltissimo, Non so, forse perché il mio lavoro in banca si fa con cifre, e le cifre, quando si presentano mescolate, confuse, possono apparire come elementi caotici a chi non le conosca, eppure in loro c'è, latente, un ordine, in realtà credo che le cifre non abbiano senso al di fuori di un qualsiasi ordine si dia loro, il problema sta nel saperlo trovare, Qui non ci sono cifre, Ma c'è caos, sei stato tu a dirlo, Un po' di video fuori posto, nient'altro, E anche le immagini che vi sono dentro, le une accostate alle altre in modo da raccontare una storia, cioè, un ordine, e i successivi caos che formerebbero se le disperdessimo prima di riaccostarle per organizzare storie diverse, e i successivi ordini che così otterremmo, sempre lasciando dietro un caos ordinato, sempre avanzando in un caos da ordinare, I segnali ideologici, ha detto Tertuliano Máximo Afonso, poco sicuro che il riferimento venisse a proposito, Sì, i segnali ideologici, se vuoi, Dai l'impressione di non credermi, Non importa se ti credo o non ti credo, lo saprai tu cosa stai cercando, Ciò che stento a capire è come tu abbia fatto questa scoperta, l'idea di un ordine contenuto nel caos e che al suo interno può essere decifrato, Vuoi dire che in tutti questi mesi, da quando è iniziata la nostra relazione, non mi hai mai considerato abbastanza intelligente da avere delle idee, Macché, non si tratta di questo, tu sei una persona molto intelligente, eppure, Eppure, non hai bisogno di terminare, meno intelligente di te, e, chiaramente, mi manca la buona preparazione di base, sono una povera impiegata di banca, Smettila di ironizzare, non ho mai pensato che fossi meno intelligente di me, voglio solo dire che questa tua idea è assolutamente sorprendente, In me inaspettata, In un certo qual modo, sì, Lo storico sei tu, ma credo di sapere che i nostri antenati hanno cominciato a essere abbastanza intelligenti per avere delle idee solo dopo aver avuto quelle idee che li resero intelligenti, Ora te ne vieni fuori anche con i paradossi, passo da uno stupore all'altro, disse Tertuliano Máximo Afonso, Prima che tu finisca per trasformarti in una statua di sale, vado a fare il caffè, sorrise Maria da Paz, e mentre camminava nel corridoio che la conduceva in cucina stava dicendo, Metti in ordine il caos, Máximo, metti in ordine il caos.”, (pp. 88-89).

Ebbene, il difficile lavoro di riduzione (non a caso porta questo nome) compiuto da Gullón e Villeneuve è consistito essenzialmente nel ridurre all’osso la tendenza verbigerante che di fatto costituisce la forza espressiva del romanzo, oggettivando visivamente la duplice ossessione del protagonista senza l’ausilio di voci interiori o delucidazioni introspettive (e adesso sappiamo quanto siano importanti nell’economia stilistica del libro), sopprimendo totalmente il dialogo intimo e ininterrotto tra Tertuliano e il buon senso (autentico interlocutore non interpellato e rumoroso disturbatore dei soliloqui dell'uomo duplicato) e, infine, mantenendo in vita soltanto gli scambi verbali strettamente necessari allo sviluppo e alla comprensione del disegno narrativo. Il tutto senza frantumare o snaturare irrimediabilmente la struttura profonda del testo di partenza, una struttura saldamente imperniata sulla nozione di destino come forza inarrestabile che travolge le imbelli esistenze umane, presentandosi sotto forma di pura e semplice necessità: proprio quella necessità che, osserva Saramago, “è uno dei nomi che prende il destino quando gli conviene camuffarsi.” (p. 242) . È dunque solo a questo grado di profondità che la sovrapposizione tra necessità e destino si lascia vedere distintamente e afferrare con sicurezza. Ed è esattamente su questa riduzione all’osso - o meglio proprio in virtù di essa - che Villeneuve ha innestato le due grandi variazioni personali: l’ossessione del controllo collettivo (rappresentato dalla ripetizione dello schema repressivo adottato dalle dittature) e quella del controllo individuale esercitato dal subconscio, incarnato precisamente e reiteratamente dalla madre-tarantola (non sfugga la fonte d’ispirazione, riconosciuta dallo stesso Villeneuve, per la rappresentazione dell’enorme ragno che incombe sulla metropoli avvolta nello smog: la gigantesca scultura Maman di Louise Bourgeois).

Se è vero che entrambe le ossessioni, ancorché in maniera larvale o disseminata, si trovano già nel libro, è altrettanto vero che, nel film, queste si concretizzano figurativamente con impressionante incisività (dai fili aerei del tram che, intersecandosi, disegnano una tela sospesa ai graffiti seriali che, in stile Banksy, raffigurano silhouette di impiegati-cloni, passando per gli schemi tentacolari disegnati sulla lavagna dal professore di storia) e, soprattutto, assumono inflessioni squisitamente personali. L’ossessione repressiva acquisisce inquietanti tratti stereotipici, intrinsecamente legati al timore della ripetizione sterile e dell’involuzione creativa del cineasta stesso, e l’inquietudine per l’esigente autoritarismo materno si converte nella minacciosa e pervasiva presenza di ragni e ragnatele, caricandosi così di forti e allarmanti risonanze psichiche (peraltro totalmente assenti nella scultura di Louise Bourgeois, nella quale la madre-ragno rappresenta esclusivamente qualità positive come intelligenza, pazienza, utilità, protezione e via seguitando). Villeneuve non mente quando sostiene che il modo migliore per definire Enemy è quello di considerarlo come un “documentario sul subconscio di Jake Gyllenhaal”, ovviamente riferendosi al doppio personaggio da lui interpretato, e quando aggiunge che il film non è altro che “l’esplorazione dell’intimità maschile”, calcando ulteriormente la mano sulle dinamiche intrapsichiche messe in scena dalla pellicola.

Del resto è lo stesso Villeneuve, in un'intervista rilasciata a una testata canadese, a fornire una chiave di lettura psichicamente orientata: "È una storia molto semplice: è un uomo che decide di lasciare l'amante e tornare dalla moglie incinta. E noi vediamo la storia dal punto di vista del suo subconscio". Il che equivale a dire che si tratta non tanto della "storia di un uomo che…", quanto, più precisamente, della "storia del subconscio di un uomo che…". L'intero film, difatti, è costruito come un enigma, un puzzle o, più precisamente, come un mind game movie secondo la definizione formulata da Thomas Elsaesser e Malte Hagener in Teoria del film (Einaudi, Torino, 2009): "Il principio strutturale dei mind game movies consiste nel trascinare gli spettatori nel mondo del protagonista, e ciò in un modo che sarebbe impossibile se la narrazione guadagnasse distanza (…)", pp. 171-172. Una pellicola, insomma, la cui proprietà principale consiste nel giocare con lo spettatore e la sua percezione della realtà, ovviamente quella offerta dal film stesso: non è fortuito che Villeneuve indichi tra i suoi titoli preferiti film-enigma come Mulholland Drive, 2001: Odissea nello Spazio o L'inquilino del terzo piano, film che propongono immagini potenti sul piano emotivo e che, al contempo, ingaggiano gli spettatori nella ricerca di un significato che, naturalmente, non sarà mai lo stesso per ciascuno di loro. Quella tessuta da Enemy, insomma, è una ragnatela di segni (chiedo venia per l’immagine scontata) che, al di là del suo potere d'irretimento fascinatorio, suggerisce una meticolosa elaborazione psichica e reclama la formulazione di un'ipotesi interpretativa eminentemente mentale.

Impossibile, difatti, non scorgere nel personaggio duplicato interpretato da Gyllenhaal con finissima sensibilità attoriale e nella figura materna incarnata da Isabella Rossellini la rappresentazione delle tre istanze psichiche di un solo individuo: Es, Io e Super-Io. Se l’identificazione tra Anthony (attore infedele e lussurioso) ed Es è fin troppo pacifica, quella tra il bonario e monotono insegnante di storia Adam e l’Io, nonché quella tra la severa madre e il Super-Io, non sembra presentare difficoltà sensibilmente maggiori (basti pensare all’eloquente e perentorio dialogo nella casa-atelier della genitrice). Tuttavia il Super-Io impregna di sé, per proprietà transitiva, la maternità in quanto tale. Nel prologo, subito dopo la telefonata della madre, la presenza apparentemente immotivata di Helen (Sarah Gadon) al sesto mese di gravidanza, seduta sul letto e con lo sguardo rivolto verso la camera, non lascia spazio a dubbi: le due donne condividono lo stesso luogo psichico e le medesime funzioni mentali, vale a dire la disposizione all’ordine e la propensione al controllo (Helen, diffidente, fruga nei pantaloni del marito mentre lui dorme e, senza dire niente al coniuge, non si fa scrupolo di andare sul posto di lavoro del fantomatico sosia). Un’identificazione, quella tra le due donne, che si rinsalda nel prefinale, quando Helen, esplicita portavoce della madre, ricorda al marito che lei ha telefonato e che lui dovrebbe richiamarla: preludio più che comprensibile alla sconcertante trasfigurazione terminale in cui è Helen stessa a tramutarsi in tarantola, chiudendo definitivamente il cerchio superegoico femminile.

Dunque, alla luce di queste considerazioni, che cosa racconta Enemy? Senza dubbio ciò che asserisce Villeneuve (la storia del subconscio di un uomo che lascia l’amante e decide di tornare dalla moglie incinta), ma con la decisiva precisazione che per portare a termine il suo proposito uccide il proprio Es e si dà completamente in pasto al Super-Io. Lo spaventoso epilogo, nel quale Helen assume improvvisamente le fattezze della tarantola-madre ci mostra le conseguenze di questa soppressione autolesionistica: la mutilazione psichica praticata dal senso di colpa (l’uomo si scusa apertamente con la moglie, abbandonandosi completamente a lei) lo priva letteralmente del suo Es (alla richiesta di restare formulata da Helen, Adam visualizza, o meglio genera mentalmente, l’incidente in cui periscono Anthony e Mary). Sicché, quando si trova nuovamente in mano la possibilità della trasgressione (la chiave del club erotico nel quale lo abbiamo visto entrare all'inizio del film), non dispone più della complicità del suo Es, non può più effettuare la metamorfosi in Anthony: ormai è solo col suo Super-Io. L'ipotesi trasgressiva, al contrario e conseguentemente alla mutilazione avvenuta, scatena inevitabilmente la metamorfosi inversa: trasfigura Helen in tarantola, oggettivando plasticamente la sola istanza mentale con la quale il suo Io è - e sarà - costretto a confrontarsi. Lo sguardo conclusivo di Adam, intriso di rassegnazione anziché di stupefatto terrore, sigilla ermeticamente il suo orizzonte mentale e decreta la sua resa incondizionata. D’ora in poi l’insorgenza del pensiero trasgressivo produrrà, per contraccolpo e in mancanza di un’istanza che lo prenda in carico, la visione intimidita della tarantola-madre-moglie (paradossalmente a essere spaventato è proprio il gigantesco aracnide, segno che è perfettamente al corrente delle intenzioni dell’uomo).
Ricapitolando: sovrapposizione di necessità e destino da una parte (vero e proprio nucleo creativo del cinema di Villeneuve) e declinazione marcatamente intrapsichica delle dinamiche narrative dall’altra (nel libro Helena non è incinta e il finale differisce radicalmente, spostando l'intera narrazione più sul versante surreale che su quello mentale). Sono questi gli aspetti che il cineasta canadese sviluppa e interpreta personalmente nella trasposizione filmica.

Ispirandosi alla scabra essenzialità dell'architettura brutalista, un'architettura che privilegia volumi con cemento a vista e pone l’accento sulle nervature strutturali (il college nel quale insegna Adam è in realtà l'University of Toronto Scarborough Campus, uno dei numerosi esempi di brutalismo presenti nella metropoli canadese), l'estetica di Enemy possiede un'impronta tecnicamente granitica che consolida la continuità visiva (fotografia ambrata, movimenti di macchina lenti e misurati, illuminazione giallastra) e che, grazie alle frequenti riprese aeree, ricava da Toronto una spazialità massiccia e stilizzata al tempo stesso. “Toronto è una città molto cerebrale, è come un'idea”, ha affermato Villeneuve chiamando in causa Crash di David Cronenberg e Last Night di Don McKellar, i due soli titoli che a suo avviso hanno reso giustizia alla città. In Enemy questa affermazione si fa vigorosamente cinema, traendo il massimo partito dalla singolarità architettonica e urbanistica della metropoli canadese (troppo spesso usata per simulare scenari statunitensi), qualificandola integralmente come luogo mentale (non un solo spazio è scevro da risonanze psichiche) e, infine, facendo dell'intera vicenda il confronto implacabile tra un uomo e una città di vetro e cemento (l’inquadratura iniziale è una panoramica orizzontale sullo skyline di Toronto e i bellissimi titoli di coda passano in rassegna le prospettive e i giochi volumetrici disegnati dai grattacieli che torreggiano nella metropoli). Insieme a Polytechnique, altra pellicola incentrata sul confronto tra uomo e spazio, il miglior film del cineasta canadese.

Pubblicata su www.spietati.it.

mercoledì 2 settembre 2015

DEALER






In una metropoli imprecisata, uno spacciatore trascorre una sfibrante giornata di incontri e consegne, pedalando da una parte all’altra della città con la sua bicicletta e il marsupio pieno di stupefacenti.








Non vi è niente di più distante dall’idea di nichilismo nel cinema di Benedek Fliegauf. Tutti i suoi film sembrano dirci questo: l’essere umano non è autosufficiente, occorre che ci sia qualcuno che se ne prenda cura. Altrimenti la sua natura degrada a quella di automa, oggetto inanimato, elemento minerale: è ciò che esemplifica A sor (2004), cortometraggio che rappresenta esplicitamente la sorte dei bambini trascurati (dimenticati a scuola dai genitori, si trasformano in manichini allineati in uno stanzone sotterraneo). Il concetto chiave è quello di sollecitudine: prendersi cura dell’altro diviene non soltanto il modo di scongiurare questa degradazione, ma anche la maniera di suggerire indirettamente una visione olistica delle cose, l’intimo legame tra il singolo e il tutto («The most important phrase in my current philosophy is “Everything is one”», affermava Fliegauf nel 2004).

Del resto la centralità del prendersi cura appare chiaramente, seppur espressa in termini non didascalici, anche nel primo lungometraggio del cineasta ungherese, quel Forest (2003) girato con attori non professionisti/amici (altro dettaglio che rimanda all’idea di legame) in cui i vari episodi apparentemente irrelati si rivelano meno disorganici di quanto sembri (si vedano soprattutto il prologo e l’epilogo nella stazione). Non solo: quasi tutti i segmenti del film si sviluppano sui concetti di premura e tenacia degli affetti - nei confronti di un cane, di un essere indeterminato, di una figlia, di una nonna scomparsa non fa differenza, la sola cosa che conta è tenere in vita il legame affettivo in tutta la sua intensità, al di là del convenzionale e immancabile sospetto di morbosità.

Ma, diversamente da Forest, Dealer elabora questa premurosa ossessione in termini ancora più impliciti e, proprio in virtù di questa reticenza, ancora più incisivi. Lo spacciatore (Felícián Keresztes) messo in scena da Fliegauf è un soggetto costretto dalla sua attività ad avere continue relazioni con altri individui: un obbligo che non si limita alla semplice consegna di sostanze (cocaina, eroina, funghi allucinogeni), ma che, per tutto il film, lo coinvolge in una serie di operazioni ben più impegnative (ascolto, ponderazione dei casi, somministrazione e confidenza). Detto più chiaramente, lo spacciatore tratteggiato da Fliegauf è una figura che riassume in sé le caratteristiche del medico, dell’infermiere e dell’amico: un curatore, in una parola (non sfugga il particolare della sua necessità di trattare personalmente con gli acquirenti: “Faccio affari solo di persona”, dice al braccio destro del capo spirituale costipato). Non sfugga, inoltre, che i suoi interventi si configurano, sin dalle prime battute, come vere e proprie prestazioni di soccorso che implicano forti responsabilità personali: prima Padre Ujvari (György Szép) che, in pieno blocco intestinale, è atteso da migliaia di fedeli, poi l’amico gravemente ustionato che implora la somministrazione di una dose letale per essere sollevato da sofferenze intollerabili, quindi la donna (Anikó Szigeti) che dice di aver bisogno di una dose di eroina per non presentarsi in crisi d’astinenza, il giorno dopo, a un colloquio con gli assistenti sociali che minacciano di portarle via la figlia. Questi non sono maneggi da spacciatore, sono prestazioni cliniche tanto clandestine quanto confidenziali.

E se la struttura a mosaico di Forest risulta ancora visibile in filigrana nell’andatura per microdrammi di Dealer (B.F.: «It had a similar mosaic-like structure to “Forest”»), nel suo secondo lungometraggio Fliegauf innesta con maggior forza il fenomeno della traccia sull’ossessione della sollecitudine. Intesa come impronta, come impressione lasciata nella mente - e non solo - dalle persone scomparse, la traccia diventa adesso il segno tangibile che può mantenere in vita l’affetto nei confronti di qualcuno fisicamente assente. La traccia - stare attenti - è al tempo stesso mentale e concreta: un’impronta che impedisce la cristallizzazione affettiva, che blocca il processo di mineralizzazione dell’essere attualmente assente. È l’incontro col padre (Lajos Szakács) a chiarire la dinamica che già s’indovinava in Forest: l’anziano genitore vede nella fossa prodotta dalla caduta mortale della moglie sul marciapiede non tanto una semplice buca fatta dal suo corpo precipitato dalla finestra di casa, quanto l’impronta reale in cui lei è ancora presente - “Lei è qui, capito? È solo qui e non nel cimitero, è solo qui!”, replica perentoriamente al figlio che gli ha appena ricordato, con risentita banalità, che la vera tomba della madre non è quella.

Indispettito dallo scetticismo del figlio, il padre gli impone di scendere insieme a lui: è qui, davanti all’impronta lasciata sul cemento dal corpo madre, che avviene il passaggio dalla dimensione esclusivamente verbale a quella visiva e dal piano meramente oggettuale a quello della traccia. La traccia non è un semplice ricordo, ma un segno tangibile depositatosi nella materia: un segno suscettibile di evocare chi lo ha lasciato fino a renderlo di nuovo presente (la stessa dinamica sarà promossa a nucleo tematico nel fin troppo programmatico Womb, film in cui chi ha lasciato il segno viene letteralmente riportato in vita). Rispetto alla città-necropoli lungo la quale lo spacciatore pedala ininterrottamente, la piccola fossa ricoperta di acqua stagnante rivela una potenza evocativa inusitata, trasformandosi sotto i nostri occhi in materia viva pur restando una pozzanghera chiazzata da macchie d’olio - “È lì, la vedi? Vedi il suo viso?”, dice il padre; “Quella è una macchia d’olio”, risponde bruscamente il figlio. La buca sul marciapiede è al tempo stesso una pozzanghera di acqua oleosa e un’entità affettivamente vibrante: lo sguardo di Fliegauf ne asseconda la doppia natura (l’oscillazione tra pozza d’acqua e segno spettrale) con un movimento di macchina lento e sinuoso che inquadra la superficie liquida dai contorni cangianti, i riflessi increspati degli alberi e le crepe sul cemento. Per lo spettatore diventa impossibile non scorgere in questa pozzanghera grigia e apparentemente insignificante qualcosa di enigmatico e magnetico: non soltanto uno squallido ristagno d’acqua in un’infossatura del marciapiede, ma anche un’impronta intimamente animata e misteriosamente attraente.

In termini più ampi, questa sequenza risulta cruciale per i risvolti metacinematografici che racchiude: qui Fliegauf sembra enunciare la sua concezione di cinema come dispositivo che trattiene l’impronta di ciò che è stato davanti alla lente della camera e che, adesso, continua a vivere nelle immagini. E che, soprattutto, è in grado di evocare la partecipazione emotiva dello spettatore. Alimentata dalla vitalità della traccia, l’ossessione della sollecitudine travalica dunque il piano del contenuto per investire pienamente quello dell’elaborazione estetica. È lo sguardo stesso di Fliegauf a prendersi cura degli esseri ripresi: esseri che, in virtù della premura audiovisiva con la quale sono rappresentati (inquadrature lunghe e avvolgenti, sound design ovattato e immersivo), continuano a evocare affetti e, seppur fisicamente assenti, a ripresentarsi sotto forma di impronta cinematografica - Just the Wind (2012), basato su una serie di aggressioni a una comunità rom avvenute realmente in Ungheria tra il 2008 e il 2009, porterà questa concezione di cinema empatico in ambito apertamente sociale, rasentando tuttavia il patetismo e il vittimismo («My aim was to be with the victims. I wanted to feel what they felt, and even more I wanted to express what they felt: to be haunted by these murderers and live this danger all day long just for being a Roma»).

Pubblicata su www.spietati.it.