mercoledì 12 novembre 2014

IM KELLER

Im Keller segna il ritorno al genere documentario di Ulrich Seidl. Il film cerca di fornire una rappresentazione del particolare rapporto che c’è tra gli austriaci e i loro seminterrati e di definire le specificità di questi luoghi. I seminterrati sono i luoghi in cui gli austriaci, soprattutto uomini, passano il tempo libero. Im Keller punta una luce su questi luoghi sotterranei che normalmente sono nascosti e, se da un lato fornisce delle risposte, dall’altro pone nuove domande al pubblico (dal sito della Biennale). 









Sono due i concetti che s’impongono con forza guardando Im Keller. Il primo, come osserva Matteo Marelli su Uzak, è quello di Wunderkammer: la camera delle meraviglie così diffusa nell’Europa centrale tra XVI e XVIII secolo in cui i collezionisti - tra i quali imperatori, sovrani e principi - raccoglievano mirabilia di varia natura, vale a dire oggetti che suscitavano stupore e curiosità per la loro originalità, eccezionalità e stravaganza. A un primo sguardo, il campionario di storture, aberrazioni e bizzarrie raffigurato in Im Keller si sposa perfettamente con la logica collezionistica della Wunderkammer, una logica attratta dall’insolito e dallo straordinario. L’istruttore di tiro appassionato di lirica e tenore dilettante, lo strambo e minuto ammiratore di prostitute che vanta una prodigiosa potenza virile e ingabbia meticolosamente la compagna di giochi, l’anziana signora che coccola bambolotti d’impressionante realismo amorevolmente custoditi in scatole-culle, lo sportivo che corre giudiziosamente sul tapis roulant e fa innumerevoli vasche in una piscina di dimensioni lillipuziane, le taciturne lavandaie di mezza età, la donna masochista che lavora paradossalmente alla Caritas aiutando le donne che subiscono violenze, il cacciatore onnivoro fiero dei suoi trofei, il nostalgico nazista suonatore di tuba, la coppia sadomaso che trascorre giornate di incantevoli sevizie: che cosa rappresenta questo eccentrico assortimento di esemplari austriaci se non un’eclettica galleria di naturalia allestita per destare meraviglia?

Il secondo concetto, che appare appena sotto la superficie del mirabile visu, mostra invece qualcosa di radicalmente diverso dall’idea del repertorio bizzarro. Si tratta dell’intima complementarità tra queste pratiche letteralmente sotterranee e la condotta tenuta apertamente, alla luce del sole, dai soggetti rappresentati e non solo. Emblematica in questo senso la figura della donna che lavora per la Caritas: la plateale contraddittorietà tra ossessione masochistica privata e professione pubblica di aiuto alle vittime della violenza maschile rivela, al contrario, l’intrinseca compatibilità tra due dimensioni apparentemente inconciliabili. Quello che appare stridente e grottescamente contraddittorio è invece ciò che si integra alla perfezione: sono le fantasie coltivate nello scantinato (la collocazione sotterranea è in questo senso di un’esattezza impressionante) a sorreggere, come fondamenta nascoste, l’attività quotidiana degli individui raffigurati. E per proprietà transitiva (questa la funzione dei martellanti sguardi in macchina) degli spettatori tutti: la dialettica tra passione nascosta e professione manifesta messa in scena da Im Keller è, in misura iperbolica e caricaturale, quella che ciascun individuo, ovviamente secondo modalità distinte, riproduce nel teatro della propria esistenza. Osservato da questa prospettiva infima e rovesciata (qui sono il basso e l’abietto a dominare), il seminterrato reale si tramuta in spazio mentale e il grottesco particolare diviene antro universale, cavità in cui si annidano i desideri reconditi e le fantasie più o meno oscene ed esecrabili che ogni soggetto custodisce nel chiuso della propria coscienza.

A proposito del cinema di Seidl si parla spesso e a ragion veduta di inferno visto da vicino: Im Keller sembra inverare esemplarmente questa affermazione. Ma, se d’inferno si tratta, abbiamo a che fare con un inferno che genera simultaneamente e per contraccolpo, come nella ben nota concezione dantesca (mi scuso per la reminiscenza scolastica), l’isola-montagna del purgatorio col paradiso terrestre che ne occupa la cima. Non è dato scindere le due entità, esse sono intrinsecamente connaturate. Inorridire moralisticamente sarebbe tanto miope e autoassolutorio quanto compiacersi morbosamente. Imbuto infernale ed escrescenza purgatoriale fanno parte della stessa realtà: quella della nostra esistenza.

Pubblicata su www.spietati.it.

mercoledì 29 ottobre 2014

ANIME NERE

Se nasci in Aspromonte il tuo destino è spesso segnato, ma molti giovani cercano di intraprendere un cammino alternativo e vanno a vivere altrove. Sono però costretti a tornare al luogo d’origine dove le dinamiche sono criminali e l’insegnamento tramandato dalla famiglia, che loro stessi hanno assorbito, è spesso crudele e duro da accettare. Ad una situazione già difficile si aggiungono una realtà familiare fatta di affetti e contraddizioni e un paesaggio straordinario. Una storia incentrata sul male che definisce i rapporto tra gli uomini (dal sito della Biennale).








Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco («La storia che racconto - lui dice - è solo frutto di fantasia», si legge sulla seconda aletta di copertina), Anime nere raccoglie solo alcuni spunti del libro per addentrarsi nei meandri dei rapporti tra Luigi (Marco Leonardi), Rocco (Peppino Mazzotta) e Luciano (Fabrizio Ferracane), fratelli di una famiglia segnata dal sangue (l’uccisione del padre su un sentiero di montagna da parte di un rivale), dalla criminalità (il traffico di stupefacenti messo in piedi da Luigi e l’attività edilizia di Rocco a Milano, sovvenzionata dai proventi del commercio di droga) e dalle tradizioni dell’Aspromonte (Luciano, il fratello maggiore, è rimasto ad Africo e, prendendo le distanze dagli affari di Luigi e Rocco, coltiva la terra e alleva le capre senza nutrire ambizioni espansionistiche). A differenza del padre, Leo (Giuseppe Fumo), il figlio ventenne di Luciano, intende seguire le orme degli zii e, presa a fucilate la vetrina di un bar il cui titolare aveva osato gettare fango sulla reputazione della famiglia, parte nottetempo per Milano raggiungendo Luigi e Rocco. La ragazzata di Leo, come viene definita dal boss locale Nino Barreca a Luciano in una convocazione dai risvolti intimidatori, accende tuttavia la miccia di una reazione a catena che, ricondotta l’intera famiglia ad Africo per rafforzare il prestigio territoriale a dispetto della supremazia del clan Barreca, porterà all’inevitabile spargimento di sangue (di cui Luigi sarà la prima vittima).

Si diceva dei legami piuttosto flebili tra il romanzo di Criaco e il film di Francesco Munzi, affiancato alla sceneggiatura da Fabrizio Ruggirello e Maurizio Braucci: se difatti il libro, benché scritto per lo più in prima persona, possiede un andamento rapsodico (frequenti i cambi di prospettiva e le divagazioni storico-antropologiche) e un respiro assai ampio sia cronologicamente che geograficamente (dalle leggende arcaico-tribali al loro riverbero nella contemporaneità e dalla Locride a Milano passando per la Sierra Nevada, Creta, Torino, Roma, Monaco di Baviera e Parigi), la pellicola riduce sensibilmente la pluralità di punti prospettici (pur mantenendo un impianto corale, l’alternanza delle focalizzazioni si tiene stretta alla saga familiare senza traiettorie eccentriche) e si concentra su un arco piuttosto limitato di tempo e spazio (difficile ipotizzare un tempo del racconto superiore a qualche settimana, la linearità della narrazione restringendo inoltre il teatro dell’azione al triangolo Amsterdam-Lombardia-Aspromonte). Serrando tempi e spazi in modo sempre più marcato attorno ai legami di sangue e all’onore da difendere a ogni costo, Anime nere delinea progressivamente il proprio centro d’interesse: non tanto l’incontenibile avanzata dei “figli dei boschi”, come vengono chiamati nel romanzo, alla conquista del mondo criminale (“Eravamo tutti simili, mossi irrefrenabilmente da una forza spropositata che ci portava a sostituire gli ormai spenti napoletani e siciliani che ci avevano preceduto”, p.102), quanto, più precisamente, l’indagine di una forma di pensiero e azione profondamente radicata in un territorio definito ma ancor più profondamente alimentata da logiche cristallizzate nella tradizione.

Non è fortuito, dunque, che il gesto estremo col quale Luciano tenta d’interrompere il meccanismo ciclico e autoperpetuantesi della vendetta sia anticipato dal rogo, questo sì davvero folle e incomprensibile nell’ottica tradizionale, delle fotografie di famiglia (tra le quali quella del padre ucciso). Per spezzare il cerchio punitivo non è sufficiente celebrare il culto della terra rinunciando all’avidità e accantonando le fantasie di grandezza (quando Luigi, nei panni del diavolo tentatore, gli propone il possesso di tutta la montagna, Luciano risponde che non saprebbe che cosa farsene e che gli basta ciò che ha), occorre anche e soprattutto distruggere quella parte di memoria in cui l’odio si è sedimentato e vistosamente coagulato, seguitando ad alimentare i propositi vendicativi. Odio tramandato e oblio agognato sembrano insomma riassumere le due tensioni fondamentali di una pellicola che, se da una parte sviluppa con ammirevole rigore l’esplorazione in profondità di un’abitudine mentale e sociale all’ostilità e alla violenza, dall’altra evidenzia più di una volta la difficoltà altrettanto palese nel saldare scavo antropologico e progressione narrativa: non un solo elemento risulta svincolato dall’esigenza di significare a chiare lettere il proprio ruolo all’interno della narrazione e dall’obbligo di trovare una collocazione nel quadro d’insieme. Restrizione categorica e sistematica che in più occasioni finisce per svilire l’azione a semplice funzione determinativa (basti pensare alla sequenza dell’esecuzione di Luigi, preceduta da una passeggiata notturna che è già cronaca di una morte annunciata), la recitazione a ostensione dimostrativa (la sequenza della cerimonia funebre col conseguente colloquio di sguardi tra Rocco e Luciano) e la rappresentazione a esposizione illustrativa (persino una capra che guarda in macchina diviene emblema del caos incipiente). E se la fotografia desaturata di Vladan Radovic dialoga efficacemente con le sonorità rarefatte e vibranti di Max Richter (“Summer 2” e “Winter 3”) o con l’ampiezza malinconica dei Set Fire to Flames (“Steal Compass/Drive North/Disappear”), il compasso estetico del film fatica spesso ad aprirsi a un’interazione con l’ambiente non strettamente e rigidamente funzionale al disegno narrativo. È infine opinabile parere di chi scrive che sia ancora Il resto della notte ad attestarsi come l’esito più equilibrato e incisivo raggiunto finora del quarantacinquenne cineasta romano.

Pubblicata su www.spietati.it

sabato 18 ottobre 2014

PASOLINI

La notte del 2 novembre 1975 a Roma viene ucciso Pier Paolo Pasolini. Ha 53 anni. Pasolini è il simbolo di un’arte che combatte contro il potere. Ciò che scrive scandalizza, e i suoi film sono perseguitati dai censori; in molti lo amano e in molti lo odiano. Il giorno della sua morte, Pasolini ha passato le sue ultime ore con l’adorata madre e più tardi con i suoi amici più cari, fino a quando non esce nella notte in cerca di avventure con la sua Alfa Romeo. All’alba viene trovato morto su una spiaggia di Ostia, nella periferia della città.









La prima domanda che viene da porsi guardando Pasolini è anche quella più banale e insidiosa: che cosa ha spinto Abel Ferrara a girare un film su uno degli intellettuali italiani più controversi e celebrati del XX secolo? Ovviamente, per evitare le secche dello psicologismo, occorre subito riformulare l’interrogativo, spostando risolutamente l’accento sul film stesso (a domande del genere sono sempre e soltanto i testi a rispondere, inutile lanciarsi in audaci congetture sulle cosiddette intenzioni dell’autore). Quindi: che cosa, in questo film e al di là degli aspetti biografico-cronachistici, si salda alla poetica ferrariana? Detto più chiaramente: qual è l’ossessione fondamentale che abita il Pasolini di Ferrara? Formulata in questi termini, la domanda non è così ovvia: se consideriamo la replica alla domanda rivoltagli nell’ultima intervista televisiva (rilasciata il 31 ottobre 1975 a Parigi), l’attività letteraria sembrerebbe incarnare integralmente questa marca ossessiva, riassumendo in sé gli altri tratti espressivi:
- Qual è la qualifica professionale che preferisce: poeta, romanziere, dialoghista, sceneggiatore, attore, critico, regista?
- Nel passaporto scrivo semplicemente scrittore.

Invece il mio dovere di scrittore è quello di fondare ex novo la mia scrittura: e ciò non per partito preso, anzi, per una vera e propria coazione a cui non posso in alcun modo oppormi.
(“Petrolio”, p.48)

In realtà il Pasolini di Ferrara - e in questo senso la giustezza del ritratto filmico ha dell’impressionante, indiscutibile apporto di una sceneggiatura libera e avvertita - non ha i connotati dello scrittore canonico concentrato esclusivamente sulla sua opera, ma spazia in più ambiti espressivi: letteratura, certo, ma anche critica sociale, impegno politico-culturale e, soprattutto, cinema. Di fatto è proprio il cinema a occupare uno spazio sempre più rilevante nella sua produzione, come si evince del resto dalle dichiarazioni contenute in una pellicola che dialoga intimamente col film di Ferrara: Pasolini prossimo nostro (Giuseppe Bertolucci, 2006). Qui, nella lunga intervista rilasciata a Gideon Bachman sul set di Salò durante le riprese finali del film, Pasolini pronuncia parole di tenore sensibilmente diverso rispetto alla supposta supremazia letteraria, ma a ben vedere non incompatibili con la pratica significante della scrittura, sebbene esercitata su lingue - ma sarebbe più pertinente parlare di materie dell’espressione - diverse. Quello che conta, insomma, è salvaguardare l’esigenza espressiva, la necessità, sempre più minacciata e circoscritta, di operare a un livello non sovrastrutturale con la realtà, aggirando il più possibile il discorso del potere, entrando in relazione profonda con la sostanza del mondo: “Non scrivo più come prima, il che equivale a dire che non scrivo più. In principio, quando ho cominciato a fare cinema, ho pensato che fosse solo l’adozione di una tecnica diversa, direi quasi di una tecnica letteraria diversa. Poi, invece, mi sono reso conto, pian piano, che si tratta dell’adozione di una lingua diversa. Quindi ho abbandonato la lingua italiana, con cui mi esprimevo come letterato, per adottare la lingua cinematografica. Ho detto varie volte, per protesta, contestazione totale, che avrei voluto rinunciare alla nazionalità italiana. Facendo del cinema ho rinunciato alla lingua italiana, cioè alla mia nazionalità. Ma la verità è un’altra, forse più complicata e profonda: la lingua esprime la realtà attraverso un sistema di segni. Invece, il regista esprime la realtà attraverso la realtà. Questa è forse la ragione per cui mi piace il cinema e lo preferisco, perché esprimendo la realtà come realtà opero e vivo continuamente a livello della realtà.”

Vorrei mimare l’ecolalia, essere fàtico, fàtico,
e così esprimere, al grado più basso, il tutto.

(“Propositi di leggerezza”, in “Trasumanar e organizzar”, p.60)

Non mette conto sottolineare in questa circostanza l'ingenuità della concezione teorica pasoliniana, pacificamente ascrivibile alla stortura semiologica convenzionalmente definita “fallacia del referente” (vale a dire la confusione tra significato e referente nella funzione segnica). Ciò che importa, invece, è rilevare quanto la pulsione espressiva tenda ad abbattere le barriere tra una sfera creativa e l’altra o, in termini pasoliniani, tra una lingua e l’altra. È questa stessa tensione, per inciso e secondo chi scrive, a sostanziare il plurilinguismo del film: il passaggio tra i vari idiomi non allude semplicemente alla dimensione internazionale dell’intellettuale, ma suggerisce una vera e propria vocazione panlinguistica, una propensione alla libera frequentazione di domini linguistici di natura diversa. Non inganni, quindi, l’opposizione tra letteratura e cinema. Del resto questo momento della vicenda biografica pasoliniana vede sfumare i confini tra una sfera espressiva e l’altra (la lettera a Moravia parzialmente riprodotta nel film testimonia la riformulazione dello stesso progetto letterario, facendo del rapporto tra autore e opera il cuore stesso dell’elaborazione romanzesca: “Ho reso il romanzo oggetto non solo per il lettore ma anche per me: l’ho messo tra il lettore e me, e ne ho discusso insieme”), non esclusa quella squisitamente esistenziale e affettiva (basti pensare all’ultima intervista domestica o alla sequenza in cui gli spunti figurativi di Porno-Teo-Kolossal sono sbozzati al tavolo della trattoria). Ripetiamolo: ciò che importa davvero è l’espressione, non l’ambito materiale in cui essa si manifesta.

(…) tutto ciò che io vi riferirò, non è apparso nel teatro del mondo ma nel teatro della mia testa, non si è svolto nello spazio della realtà ma nello spazio della mia immaginazione, non si è, infine, concluso secondo le regole contraddittorie del gioco dell’esistenza, ma si è concluso secondo le regole contraddittorie del gioco della mia ragione.
(“Petrolio”, p.413)

È in questo senso che la scrittura, svincolata dalla semplice fissazione dei segni verbali sulla pagina, può compiutamente configurarsi come pratica significante autonoma e pervasiva, come espressione suscettibile di trasferirsi dalla pagina allo schermo, dal verso al corpo. La stessa morte di Pasolini diviene, nella rappresentazione filmica ferrariana, fatto di scrittura, fatto espressivo: anziché tentare la fuga o assumere un atteggiamento remissivo, egli si oppone agli aggressori con la stessa disperata e rovinosa fermezza con la quale si opponeva, nelle sue opere, alla ferocia del pensiero dominante. Davvero qualcuno potrebbe supporre che queste figure sbraitanti sbucate dalla notte ostiense non siano emanazioni di quello stesso pensiero, anzi, per usare un termine tanto raccapricciante quanto calzante, di quella stessa mentalità? Chiamiamola pure come vogliamo (fascismo, oscurantismo, perbenismo, bullismo e altri -ismi altrettanto parziali e inessenziali): resta il fatto che Dafoe/Pasolini vi si oppone e opponendosi soccombe. Ma è anche soccombendo a queste forze dell’uniforme che lascia su di noi una macchia indelebile: non diversamente dal Deveraux di Welcome to New York, per quanto l’accostamento possa suonare blasfemo e irriverente, sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia (così come sulla carta o sulla celluloide), il Pasolini di Ferrara “non cede sul proprio desiderio”. E, spingendo oltre l’interpretazione, in questa letale opposizione s’indovina addirittura la condensazione del dramma pasoliniano messo in scena da Ferrara: prendere posizione contro il criptofascismo dominante significa sì esprimersi (e quindi inverare uno slancio vitale), ma al tempo stesso significa piazzare la propria esistenza sotto l’ipoteca della morte. Nell’antagonismo dell'espressione, insomma, si condensano impulsi vitali e pulsione di morte, azione e coazione.

Torniamo però al dialogo tra Pasolini e Pasolini prossimo nostro. A molti - e a ragione - non è affatto sfuggita la clamorosa analogia tra l’intellettuale italiano e il cineasta newyorkese generata dall’affermazione “farei film anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra. O faccio film o mi suicido”, affermazione incastonata nell’intervista rilasciata a Furio Colombo da Pier Paolo Pasolini poche ore prima di essere assassinato (incastonata poiché nell’intervista originale non vi è traccia di un’affermazione del genere). L’analogia con la prassi cinematografica ferrariana è così forte che potremmo pensare a un’aggiunta vera e propria, qualcosa come una licenza (di) poetica. In realtà, si tratta ancora una volta di farina pasoliniana, semplicemente travasata da un’intervista all’altra. La suddetta dichiarazione si trova, con lievi differenze, nella pellicola di Bertolucci: “Continuerei a fare lo stesso, prometto, il cinema, anche se la libertà fosse solo da parte mia e si esaurisse con l’espressione. Forse lo continuerei a fare lo stesso perché ho bisogno di farlo, mi piace farlo e lo farei. O mi suicido o lo faccio”. La conclusione del passaggio in questione è altrettanto cruciale: “Cioè, a un certo punto, io facendo un film mi esprimo. Se poi questa mia espressione viene completamente alienata e meccanizzata, vabbè pazienza, io intanto mi sono espresso il più possibile liberamente”. Difficile equivocare: a essere irrinunciabile non è tanto il cinema in sé, quanto, più profondamente, l’opportunità che esso offre di esprimersi. Ed esprimersi “il più possibile liberamente” per giunta: libertà irrimediabilmente parziale e inevitabilmente condizionata (dalle materie manipolate in primo luogo), certo, ma cionondimeno non circoscrivibile a un solo campo linguistico né a un codice specifico.

Qualsiasi opera avviene nel mistero.

In quest’ottica performativa della scrittura che, non è superfluo ricordare, è anche scrittura filmica, tornano in mente le parole di Linguaggio e cinema di Christian Metz, un libro che, nonostante i suoi quarantatré anni, continua a fornire spunti critico-teorici tutt’altro che irranciditi: “la scrittura non è né un codice né un insieme di codici, ma un lavoro sui codici, a partire da essi, contro di essi, lavoro il cui risultato provvisoriamente “fermato” è il testo, ossia il film: perciò la chiamiamo filmica” (pp.291-292). Se questa concezione estensiva, dinamica e antagonista della scrittura si presta perfettamente a delineare il tumultuoso percorso espressivo di Pier Paolo Pasolini, essa si adatta altrettanto agevolmente al magma audiovisivo messo in scena da Ferrara, un delirio organizzato che s’irradia scompostamente seguendo le linee di fuga che l’universo pasoliniano proiettava sull’avvenire. Dal montaggio di Salò (ancora una volta il film nel suo processo di composizione) all’iconografia ipotetica e trasandata di Porno-Teo-Kolossal (pellicola che nasce sulle ceneri di un progetto incompiuto e che si rifiuta letteralmente di finire), passando per le visioni dei frammenti di Petrolio (Il pratone della Casilina; L’Epochè: Storia di un uomo e del suo corpo), Pasolini non fa che ripetere incessantemente questa verità paradossale: esprimersi significa al tempo stesso vivere e morire. Ed è proprio in questo senso che il Pasolini di Pasolini è ferrariano e il Ferrara di Pasolini pasoliniano: nella condivisione di un’affine pulsione espressiva che è al tempo stesso slancio vitale e ipoteca di (auto)distruzione, indipendentemente dal livello e dalla sfera in cui l’espressione stessa - la scrittura dei sensi - si materializzi.

Pubblicata su www.spietati.it

martedì 14 ottobre 2014

THE LOOK OF SILENCE

The Look of Silence, seguito del documentario drammatico The Act of Killing, analizza ancora il tema del genocidio in Indonesia, le purghe anticomuniste del 1965, affrontandolo da un'altra prospettiva. The Look of Silence offre una visione della tragedia da parte delle vittime, in particolare segue la storia di un uomo sopravvissuto, il cui fratello è stato torturato fino alla morte durante la rivoluzione da un gruppo di ribelli; storia già raccontata dal punto di vista degli assassini nel documentario del regista The Act of Killing. In The Look of Silence si osserva la famiglia dell’uomo ucciso, in particolare il fratello minore, che decide di incontrare gli uomini che hanno massacrato uno di loro (dal sito della Biennale). 






"Let the past be past" is a dishonest sentence if there is no acknowledgement of what the past is and what it means (Joshua Oppenheimer).

Verso i tre quarti della versione lunga (159’) di The Act of Killing, inquadrato in primo piano dalle telecamere di una rete televisiva indonesiana, uno dei leader del gruppo paramilitare Pancasila Youth dice a chiare note: “Non ci sarà nessuna riconciliazione, poiché quello che è accaduto è storia. La storia è dovuta andare in questo modo, sicché non c’è alcuna riconciliazione”. Ciò che il comandante in questione pronuncia con sbruffonesca magniloquenza è esattamente quella stortura che Raymond Aron, nell’Introduzione alla filosofia della storia, ha definito “illusione retrospettiva di fatalità”, ovvero la concezione secondo la quale gli eventi procedono in una direzione rigorosamente predeterminata e ineludibile. E in The Look of Silence una proposizione simile (“il passato è passato”) torna come un mantra sia nelle arroganti dichiarazioni degli aguzzini che nelle intimidite testimonianze dei sopravvissuti. Ebbene, il punto cruciale del dittico indonesiano di Joshua Oppenheimer sta precisamente qui, nella confutazione di questa tautologia mistificatoria che cristallizza il passato in un luogo totalmente separato dal presente ed ermeticamente chiuso. Si tratta di una posizione che confina con l’amnesia vera e propria, con l’oblio coatto e rinunciatario che sottrae il passato alla rivisitazione critica e al giudizio morale.

La tautologia semplificatoria e deterministica è profondamente radicata nell’opinione comune: il passato è passato e non può più essere modificato, non abbiamo più potere su ciò che è stato. A sgretolare irrimediabilmente questa posizione deresponsabilizzante e in fondo acquiescente è Paul Ricoeur in Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato (Il mulino, Bologna, 2004). La considerazione del passato come un deposito di fatti immutabili e intoccabili coglie solo una parte di verità (quella legata al carattere indelebile di ciò che è stato), ma al tempo stesso blocca ogni tentativo di reinterpretazione del senso degli eventi, del loro peso morale alla luce del presente e, soprattutto, del futuro: “Se, infatti, i fatti sono incancellabili. se non si può più disfare ciò che è stato fatto, né fare in modo che ciò che è accaduto non lo sia, in compenso il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte; oltre al fatto che gli avvenimenti del passato possono essere interpretati altrimenti, il carico morale legato al rapporto di colpa rispetto al passato può essere appesantito oppure alleggerito, a seconda che l’accusa imprigioni il colpevole nel sentimento doloroso dell’irreversibile, oppure che il perdono apra la prospettiva di una liberazione dal debito, che equivale a una conversione del senso stesso del passato” (pp.92-93).

E il progetto del perdono come retroazione del presente (e del futuro) sul passato è ciò che sta alla base del dittico di Joshua Oppenheimer: se The Act of Killing ha scoperchiato l’enormità del massacro avvenuto in Indonesia tra il 1965 e il 1966 assumendo un’ottica prevalentemente retrospettiva (lo spettacolare reenactement degli interrogatori, delle torture e delle esecuzioni ai danni dei comunisti o presunti tali), The Look of Silence adotta invece un punto di vista saldamente ancorato nel presente. Perché solo un’ottica fissata nell’oggi dei figli (il protagonista del documentario è Adi, nato nel 1968 e fratello minore di una delle vittime più raccontate e ricordate del massacro dello Snake River) può rivisitare l’eccidio mettendolo in relazione a un domani di riconciliazione, soltanto uno sguardo non accecato dalla paura del passato è in grado di concepire un futuro di riavvicinamento tra individui che il presente vuole animosamente separati. Anzi, proprio in virtù di questo ancoraggio nel presente, il timore si converte in risorsa esplorativa, concentrazione investigativa, esattezza delle domande. Girato nel 2012 dopo la fine di The Act of Killing ma prima della sua proiezione pubblica (ciò che vediamo nel secondo documentario non si sarebbe potuto filmare una volta scoperchiato il vaso di Pandora, lo scalpore destato lo avrebbe reso impossibile), The Look of Silence è stato realizzato in condizioni di pericolo costante: la troupe dei faccia a faccia con gli assassini ancora al potere comprendeva esclusivamente individui danesi dai cui cellulari erano stati rimossi i numeri memorizzati per salvaguardare incolumità e anonimato dei collaboratori indonesiani, Adi circolava senza documenti, gli spostamenti erano effettuati con due automobili per facilitare la fuga in caso di inseguimento e, infine, la famiglia di Adi è stata trasferita a migliaia di chilometri per metterla al riparo da sicure rappresaglie.

Negli spinosi confronti tra chi ha partecipato direttamente o indirettamente alla carneficina di cinquant’anni prima e Adi, ottico quarantaquattrenne che s’incarica di preparare occhiali per i suoi interlocutori, la sensazione di minaccia incombente è sovente palpabile e talvolta dichiarata (il leader del Commando Aksi, braccio armato delle milizie regolari incaricato di effettuare concretamente lo sterminio, lo incalza con domande mirate a scoprire da quale villaggio viene e che tipo di attività cospiratoria svolga), ma la compassata ed empatica fermezza dell’optometrista tiene a bada l’aggressività strisciante, impedendo che i colloqui degenerino in livorose requisitorie e reazioni violente. Le domande sulle reali responsabilità dell’ecatombe e le richieste di riconciliazione di Adi s’infrangono immancabilmente contro la resistenza degli anziani esecutori a riconoscere il significato morale delle loro azioni e contro l’omertà degli altrettanto anziani abitanti del luogo. Il paradosso è questo: gli esecutori non nascondono di aver partecipato alla carneficina, al contrario - come già accadeva in di The Act of Killing - si vantano dell’efficienza del loro modus operandi, illustrando nel dettaglio e con compiaciuta sbruffoneria le procedure del massacro dello Snake River. Il motivo di questa vanagloria è semplice: i mandanti sono saldamente al potere e loro beneficiano ancora dei privilegi ricevuti per l’obbedienza dimostrata (si noti di passata che in The Look of Silence si trova il nucleo generatore di entrambi i documentari: le riprese, effettuate nel febbraio del 2004, in cui due leader degli squadroni della morte portano Oppenheimer su una sponda dello Snake River, teatro di oltre 10000 esecuzioni tra cui quella di Rumli, rievocando vivacemente le modalità di sterminio e mettendosi infine in posa, sorridenti e vittoriosi, per scattare delle foto ricordo).

Tuttavia, quando si tratta di passare dall’aspetto procedurale a quello morale, le cose cambiano radicalmente: le responsabilità personali stanno sempre altrove, dislocate nelle ramificazioni del potere, diluite nell’egida dell’esercito regolare e giustificate dall’indiscutibilità degli ordini. Impossibile fare breccia in questa corazza legittimata dall’alto. Non è fortuito che la sola persona capace di mostrare segni di incrinatura sia la figlia di uno degli aguzzini: la struttura che sorregge e giustifica la costruzione autoassolutoria non è così infrangibile in chi non l’ha dovuta assimilare direttamente. Per quanto il programma di prevenzione anticomunista seguiti a generare spaventose semplificazioni (i truculenti racconti che vengono ammanniti dall’insegnante al figlio di Adi), la campagna persuasiva ufficiale può essere smascherata e definita per quello che è: propaganda. L’ottico itinerante lo dice apertamente e a più riprese ai leader degli squadroni della morte, ottenendo le puntuali reazioni irritate ed evasive; e lo dice anche al giovane figlio per contrastare l’indottrinamento scolastico al quale è sottoposto quotidianamente. Ma, pur percorribile, questa strada solitaria non è in grado di produrre un autentico cambiamento, poiché per formulare un’immagine collettiva del passato liberata dalle incrostazioni ideologiche è necessaria una trasformazione politica.

Occorre innanzitutto che il governo riconosca i crimini commessi (cosa che solo dopo The Act of Killing è avvenuta in parte e con molta riluttanza) e occorre che inizi un processo politico che, chiamando in causa gli stati conniventi (gli Stati Uniti in primo luogo: si veda il notiziario NBC del 1967 incluso nella pellicola), ristabilisca, per quanto possibile, la verità storica e la giustizia. Solo allora si aprirà uno spiraglio per una riconciliazione non occasionale e occasionalmente ritrattabile. Nel confronto finale tra Adi e la famiglia di uno dei principali artefici, attualmente deceduto, dell’uccisione di Rumli (omicidio più volte rievocato e persino rappresentato graficamente in un libro scritto e illustrato dall’uomo scomparso), i figli e la vedova negano ripetutamente di essere a conoscenza del coinvolgimento del padre nel massacro, simulando inconsapevolezza in perfetta malafede, dal momento che Oppenheimer ha trascorso alcuni mesi con loro ricostruendo scrupolosamente la sanguinosa vicenda in cui l’uomo aveva avuto un ruolo di primo piano: questa sconfessione, ovviamente indotta dalla vergogna e dal timore di essere considerati colpevoli e codardi, è esattamente ciò a cui va incontro l’iniziativa del singolo se non accompagnata da un processo di riformulazione collettiva e ufficiale del passato. Ed è per questo motivo che, sul finire della sequenza, Oppenheimer interviene in prima persona, dissociando la propria prospettiva da quella di Adi e mostrando alla reticente famiglia un altro video in cui il padre sbandiera orgogliosamente il libro scritto a futura memoria: non si tratta di un gesto calcolato e mosso da cinismo forcaiolo, ma di un atto impulsivo dettato dalla sorpresa e dall’incredulità di fronte a un rinnegamento così spudorato.

A fare da controcanto domestico e in qualche modo familiarmente lirico, Oppenheimer alterna gli incontri con gli anziani capi del Commando Aksi (e con un amico di Rumli avventurosamente scampato al massacro) a sequenze che ritraggono sia i vecchi genitori di Adi, la cui veneranda età resta un mistero imperscrutabile, sia i suoi giovani figli (meno visibile la moglie). In questi frangenti i registri si ampliano vistosamente, andando dal lamento della perdita all’intimità divertita, dalla quotidianità delle cure che la madre prodiga al centenario coniuge ormai quasi del tutto cieco, sordo e anchilosato alle scherzose tenerezze tra Adi e la piccola figlia. Se le parentesi domestiche introducono momenti che mitigano apparentemente la tensione dei confronti, non sfugga la violenza implicita nel disegno conciliatorio di Adi: chiedere a individui abituati a convivere con l’enormità dei delitti commessi di riconoscere una responsabilità ammantata di grandioso eroismo significa chiedere loro di rinunciare al supporto fantastico che sorregge concretamente la loro esistenza (non è ozioso ripetere che reputazione e benessere di molti ex aguzzini derivano proprio dai delitti commessi tra il ’65 e il ’66). La mozione del perdono implica che la colpa sia riconosciuta non solo da chi ne ha subito le conseguenze ma anche da chi ne ha tratto beneficio e, soprattutto in una situazione di impunità istituzionalizzata, comporta un vero e proprio disgregamento strutturale, una disintegrazione delle gloriose fantasie sanguinarie (è in questa cornice quasi tribale che va collocato il rituale apotropaico dell’assunzione del sangue versato per scongiurare la follia). La mozione del perdono equivale dunque a un’autentica distruzione. The Look of Silence s’impone prepotentemente, allo stesso titolo di The Act of Killing, come un film sul cinema: più precisamente sulla potenza d’impatto del cinema quale dispositivo per riconfigurare la realtà. Terremotandola.

Pubblicata su www.spietati.it

venerdì 22 agosto 2014

CLASSIFICA FILM DELL'ANNO 2013/2014


Contrarietà, contraddittorietà, complementarità: proporzioni variabili e arbitrarie.



 

spettacolo della morte/morte dello spettacolo



 
  

The Act of Killing - Joshua Oppenheimer






 
  

The Canyons - Paul Schrader






 

sessi/sessioni/ossessioni/possessioni



 
  

Welcome to New York - Abel Ferrara






 



Nymphomaniac - Lars von Trier






 

giochi (proibiti) della gioventù



 
  


Giovane e bella - François Ozon






 
  

Les Salauds - Claire Denis






 

poligoni utopici/distopici



 


A Spell to Ward Off the Darkness - Ben Rivers, Ben Russell





 
  

Materia oscura - Massimo D’Anolfi, Martina Parenti







 

attento, la natura è lamento



 


Lo sconosciuto del lago - Alain Guiraudie




   


Noche - Leonardo Brzezicki





 

strano il colore sotto la pelle



 

L'étrange couleur des larmes de ton corps - Hélène Cattet, Bruno Forzani





 


Under the Skin - Jonathan Glazer







 

deadly is the female



 
  

La gelosia - Philippe Garrel




 
  


Alleluia - Fabrice Du Welz







 

à dieux oh langage



 
  

Adieu au langage - Jean-Luc Godard







 

(FUORI)SERIE - Carcosa, Côte d'Opale



 
  

True Detective - Cary Fukunaga






 
  

P’tit Quinquin - Bruno Dumont







 

CORTI DI SCORTA



 


 


Let There Be Light - Adam B Daniels






Pubblicata su www.spietati.it

domenica 29 giugno 2014

ALLELUIA

Gloria, infermiera alla camera mortuaria con una figlia avuta da un matrimonio fallito, incontra Michel tramite un annuncio per cuori solitari on line. Per lei è subito passione cieca, mentre per lui, almeno inizialmente, una delle tante possibilità per guadagnare denaro abbindolando una donna sola. Scoperta la truffa, Gloria decide comunque di unirsi a lui in un legame pericoloso e, lasciata sbrigativamente la figlia a un’amica, si finge sorella di Michel per continuare la vita di espedienti e raggiri a scapito di donne in cerca di compagnia. I due iniziano così una vita di viaggi e incontri, scandita però dagli omicidi perpetrati da Gloria, consumata dalla gelosia e incapace di tollerare che il compagno si conceda sessualmente alle donne scelte di volta in volta.


 
Secondo capitolo di un’annunciata trilogia delle Ardenne (inaugurata dieci anni fa con Calvaire), Alleluia è esplicitamente ispirato alla vicenda di Martha Beck e Raymond Fernandez, coppia di assassini seriali della seconda metà degli anni ’40 meglio noti come “The Lonely Heart Killers”. Le sanguinose peripezie di Raymond e Martha - entrambi condannati alla sedia elettrica e giustiziati nello stesso giorno, l’8 marzo 1951 - hanno già originato due film: il primo è The Honeymoon Killers (1969), sceneggiato e diretto da Leonard Kastle che rimpiazzò Martin Scorsese dopo una sola settimana di riprese (nonché un altro regista, Donald Volkman) poiché considerato eccessivamente lento e meticoloso. Unico film girato dal compositore Kastle, I killers della luna di miele si distingue per l’impronta ruvidamente grottesca e per lo sferzante radicamento nel contesto americano del periodo. L’altro è Profundo Carmesí (1996) di Arturo Ripstein, trasposizione in terra messicana della folie à deux di Martha e Raymond che esalta le componenti erotiche e spiccatamente melodrammatiche latenti nel film di Kastle.

Al suo quarto lungometraggio (tra Vinyan e Alleluia Du Welz ha realizzato Colt 45, polar con Gérard Lanvin e JoeyStarr di prossima uscita nelle sale francesi), il quarantaduenne cineasta belga si discosta dal prototipo statunitense prendendo letteralmente le mosse dal film di Ripstein. È stata proprio la visione di Profundo Carmesí ad aver spinto Du Welz al riadattamento delle gesta dei due assassini dei cuori solitari in territorio belga: inizialmente scritta per Yolande Moreau, costretta a rinunciare a causa di riserve personali, la sceneggiatura di Alleluia procede difatti nella stessa direzione di Profundo Carmesí, trasportando il fatto di cronaca dalla realtà statunitense nel paese natale del regista - in questo caso allo spostamento geografico si accompagna quello cronologico, il film di Du Welz traslando la vicenda nella contemporaneità, anche se i riferimenti temporali altalenano tra annunci in rete, lettere cartacee, telefoni fissi e automobili anni ’80-’90. Ciononostante Alleluia non ricalca pedissequamente il canovaccio narrativo della pellicola di Ripstein, eliminando quasi del tutto ciò che precede e segue l’incontro di Gloria (Lola Dueñas) e Michel (Laurent Lucas, già protagonista di Calvaire), concentrandosi esclusivamente sulle dinamiche di squilibrio sentimentale che si sviluppano nella loro relazione.

Ciò che preme a Du Welz è l’ossessione amorosa, matrice generativa della sua poetica (si pensi alla distorsione coercitiva del rapporto coniugale in Calvaire o alla delirante ostinazione materna di Vinyan), come grimaldello per esplorare le dinamiche di prevaricazione che funestano, ammorbandolo, il rapporto di coppia: “Ciò che mi ha profondamente interessato, al di là del fatto di cronaca e degli omicidi di donne, è la storia d’amore, è questo dérèglement amoroso, è il nido del fascismo, la coppia; sempre uno che tenta di dominare l’altro, uno che cerca di imporre la propria visione all’altro; questo cambia, ma è proprio questo che mi ha interessato profondamente” (il regista al termine della proiezione del film alla Quinzaine des Réalisateurs). Dominio, alienazione, possesso, avidità, squilibrio: sono queste le tensioni che, miscelate in dosi cangianti, attraversano Alleluia dandogli un’andatura irrequieta e vacillante esaltata dalla grana della pellicola 16mm (fortemente voluta da Du Welz per conferire all’immagine una qualità appiccicaticcia e formicolante), dall’illuminazione pressoché naturale di Manu Dacosse (già direttore della fotografia di Hélène Cattet e Bruno Forzani in Amer e L'étrange couleur des larmes de ton corps) e dall’allestimento scenografico dell’inseparabile Manu de Meulemeester (particolarmente ragguardevole il lavoro di configurazione degli interni domestici, ispirato al libro Intérieurs di François Hers e Sophie Ristelhueber, ricognizione fotografica incentrata sull’edilizia sociale in Vallonia alla fine degli anni ’70).

Articolato in quattro atti introdotti dai nomi delle donne incontrate di volta in volta da Michel (Gloria, Marguerite, Gabriella, Solange), Alleluia gioca più sulle variazioni di registro che sull’esibizione di un’estetica improntata alla compattezza stilistica (in questo senso le differenze rispetto alla lussureggiante maestosità di Vinyan sono davvero enormi), dialogando sì con le atmosfere stranianti e surreali di Calvaire, ma soprattutto con le tonalità grottesche e sardoniche del cortometraggio del 1999 Quand on est amoureux, c'est merveilleux - il cui titolo viene citato alla lettera nel secondo atto da Marguerite, interpretata proprio da Édith Le Merdy, protagonista del corto che è valso a Du Welz il grand prix della categoria al Festival di Gérardmer e che ha segnato l’inizio della fortunata carriera del direttore della fotografia Benoît Debie (notato nell’occasione da Gaspar Noé). La coesione interna dei quattro movimenti narrativi è tuttavia assicurata da una strategia che stabilisce un posizionamento forte dello sguardo senza fissarlo in modo inalterabile: se nei primi tre segmenti la titolarità delle soggettive è assegnata quasi esclusivamente a Gloria (detto più chiaramente, il punto di vista che orienta il film è a tutti gli effetti quello della donna innamorata e gelosa), l’ultimo atto presenta invece un’alternanza tra lo sguardo di Gloria e quello di Michel, veicolando anche attraverso lo sguardo l’incrinatura della loro complicità.
 
Girato in ordine cronologico per potenziare l’immedesimazione degli interpreti nelle rispettive parti, Alleluia non nasconde i collegamenti intertestuali che lo situano nel corposo repertorio degli amanti criminali e dell’ossessione amorosa intrisa di gelosia: se le frequenti emicranie di Michel derivano direttamente dal più volte menzionato Profundo Carmesí, l’itinerario in coppia costellato di omicidi si riallaccia a una lunga tradizione cinematografica che va da La sanguinaria (1950, Joseph H. Lewis) a Killer in viaggio (2012, Ben Wheatley), passando per Gangster Story (1967, Arthur Penn) , La rabbia giovane (1973, Terrence Malick) e Natural Born Killers (1994, Oliver Stone); mentre l’amour fou permeato di gelosia ed esclusività riecheggia lontanamente Él (1953, Luis Buñuel) ed Ecco l'impero dei sensi (1976, Nagisa Oshima). Ma la cinefilia di Fabrice Du Welz (che peraltro, da settembre 2013, conduce Home Cinema, una trasmissione dedicata al cinema nazionale su BeTV) non soffoca la progressione drammatica della pellicola, dal momento che il cineasta belga si concentra prevalentemente sulla direzione degli attori, spingendo le interpretazioni a un’intensità mai raggiunta nei precedenti lungometraggi (impressionante, per nitidezza e fisicità, la prova di Lola Dueñas). E se è vero che talvolta Alleluia vive di sprazzi e pezzi di bravura sensibilmente dissociati dal resto della concatenazione filmica (la danza attorno al fuoco accompagnata da cavernose sonorità elettroniche; la canzone di accorata diffidenza che Gloria, prima di fare a pezzi un cadavere, intona sulla partitura composta da Vincent Cahay), è altrettanto vero che questa esalazione di disomogeneità segnala l’energia di un cinema in odore di trasformazione interna: “Lo percepisco come un film di transizione. Al contempo un ritorno al mio cinema ma anche un passaggio verso qualcos’altro” (FDW).

Grazie a Elisa Schiavi per il contributo.

Pubblicata su www.spietati.it

martedì 3 giugno 2014

WELCOME TO NEW YORK


Devereaux è un uomo molto potente. Un uomo che gestisce miliardi di dollari al giorno e che controlla il destino economico delle nazioni. Ma Deveraux è anche un uomo posseduto da un irrefrenabile e insaziabile appetito sessuale. Un uomo che sogna di salvare il mondo ma che non è in grado di salvare se stesso, un uomo terrorizzato, un uomo perso. Deveraux è un uomo al comando del mondo, che vedrete precipitare nel vuoto... (dal sito ufficiale)  








Questo film è ispirato a un caso giudiziario le cui fasi pubbliche sono state filmate, trasmesse e commentate dai media del mondo intero.

Ma i personaggi del film e le sequenze che li rappresentano nella loro vita privata rientrano nel dominio della finzione, dal momento che nessuno può pretendere di ricostituire la complessità e la verità della vita degli attori e testimoni di questo caso, sulla quale ciascuno conserva il proprio sguardo.

Nel caso giudiziario che ha ispirato questo film, le indagini sono state abbandonate dopo che il procuratore ha concluso che la mancanza di credibilità della querelante rendeva impossibile di sapere, al di là del ragionevole dubbio e quale che sia la verità, ciò che è avvenuto durante l'incontro nella suite dell'hotel.

Presentato al Marché del 67º Festival di cannes e distribuito in streaming su varie piattaforme internazionali (si parla di e-cinema, vale a dire una modalità di distribuzione che scavalca l’uscita in sala in favore del web), Welcome to New York ha suscitato le attese e immancabili diatribe/polemiche/querele connesse agli ovvi riferimenti all’affaire Dominique Strauss-Kahn (per informazioni rivolgersi alla rete). Indubbiamente l’ultimo film di Abel Ferrara non può non evocare le gesta dell’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale per motivi fin troppo palesi (a partire dalle didascalie iniziali), eppure fermarsi alle somiglianze col caso giudiziario senza scorgere quanto le affinità tra DSK e Devereaux (Gérard Depardieu) siano soltanto un pretesto per realizzare una congiunzione tra singolare e universale (sfruttare la notorietà del personaggio per mettere in luce aspetti potenzialmente presenti in ogni essere umano) e, soprattutto, senza rilevare quanto la vicenda messa in scena si adatti alla poetica del cineasta newyorkese sarebbe imperdonabilmente miope. Da qualsiasi angolazione lo si voglia considerare (maniaco, depravato, irreferenabile o semplicemente folle), Devereaux appartiene alla galleria di personaggi dipendenti che attraversano la filmografia di Ferrara (basti pensare al Lieutenant di Il cattivo tenente o alla Kathleen di The Addiction), scongiurando risolutamente l’effetto cronaca (non sfugga la cancellazione pressoché totale dell’attività finanziaria del protagonista dall’intera durata della pellicola).

Abel e io abbiamo deciso che questo film interessa tutti i francesi. Non solo quelli che vivono vicino a un cinema. Non solo quelli che sono disposti ad aspettare parecchi mesi, mentre in altri paesi ognuno può avervi accesso. Vogliamo questo film disponibile per tutti e a casa, sul tuo televisore o computer. E soprattutto… contemporaneamente alla sua proiezione a Cannes. Non è mai stato fatto prima e questo è il motivo per cui ci piace! (Gérard Depardieu)

Considerare la satiriasi di Devereaux - se così è dato chiamarla - come una semplice allegoria del potere o come una perversione prodotta dal potere stesso sulla libido del soggetto sarebbe tanto comodo quanto fuorviante, ma è proprio da un’associazione simile che il film di Ferrara prende nettamente le distanze (in questo senso ogni accusa di diffamazione manca clamorosamente il bersaglio, ovvero il film stesso). In Welcome to New York - e ignorare questo dato significa travisare completamente la pellicola - la dipendenza di Devereaux non agisce in combutta ma contro il potere: è a causa dell’ossessione erotica che egli neutralizza il mandato simbolico della moglie Simone (Jacqueline Bisset), vale a dire la corsa alla carica presidenziale. Se è vero che il ruolo ufficiale di Devereaux ne facilita enormemente la dipendenza (esattamente come il ruolo di ufficiale di polizia favoriva le trasgressioni del Bad Lieutenant), è altrettanto vero che la sua ossessione, perseguita con tenacia suicidaria, aggredisce il potere stesso alle fondamenta, impedendo non soltanto l’ipotesi dell’imminente candidatura presidenziale, ma addirittura distruggendolo in quanto figura pubblica, in quanto personaggio prestigioso e rispettabile. Abbiamo qui a che fare con la rappresentazione di una dipendenza/ossessione (nel regolamento di conti con Simone, Devereaux si pronuncia prima “sex addicted”, quindi definisce “sickness” la propria erotomania) che va al di là dei principi di realtà e piacere, un’esigenza incontrollabile che lo guida all’atto senza curarsi delle conseguenze, una spinta irrefrenabile in cui egli si identifica apertamente (“You know who I am, you know everything”, dichiara candidamente alla moglie).

L’uomo come tale è una «natura malata», deragliata, fatta uscire dai binari dall’attrazione per una Cosa letale (Slavoj Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia).

Situato oltre il mero piacere, il godimento di Devereaux si manifesta come coazione a ripetere intimamente connessa alla dissipazione, alla soddisfazione autodistruttiva, alla pulsione di morte (morte simbolica in questo caso: la distruzione del legame sociale assicurato dalla reputazione e dall’affidabilità). Jouissance, in una parola. Incontrollato e indifferenziato (l’appetito sessuale di Devereaux non va tanto per il sottile, indirizzandosi verso qualsiasi corpo femminile più o meno disponibile), questo godimento si presenta come il tratto unario che condensa e individua la verità del personaggio: succintamente coperto da un asciugamano avvolto attorno all’enorme ventre, egli domanda alla cameriera intimidita, poco prima di afferrarle violentemente le braccia, “Do you know who I am?”. Una domanda che, al di là del risvolto implicito pressoché immediato (“io sono un personaggio potente e influente, non ti è concesso negarti”), significa forse qualcosa di meno subdolo e ricattatorio: “io sono questo essere nudo, deforme e famelico, non posso fare a meno del mio godimento qui e ora”. Nell’essere tutt’uno con la propria jouissance, Devereaux si colloca insomma in una dimensione distante tanto dalla sanzione giudicante quanto dalla correzione ortopedica: immune all’esperienza della detenzione e refrattario alle sedute di psicoterapia, egli, per dirla in termini spericolatamente lacaniani, “non cede sul proprio desiderio”. In ultima analisi, quello di Devereaux è un personaggio intimamente patetico: soffre nel/per mantenere intatto e inalterato il proprio godimento, rifiutando ogni ipotesi di adattamento alla realtà (“No one can save anyone. And you know why, doctor? Because no one wants to be saved”, sentenzia con disarmante sicurezza allo psicoterapeuta interpretato da Christ “Chris” Zois, peraltro autore dello script insieme a Ferrara).

The appetite is insatiable (Kathleen Conklin/Lili Taylor in The Addiction).

La raffigurazione della dipendenza come condizione inarginabile e indisciplinabile non è certo una novità per Abel Ferrara, anzi probabilmente costituisce l’ossessione più riconoscibile del suo cinema: se in The Bad Lieutenant essa s’intrecciava con l’ansia della redenzione e del sacrificio tossico, in The Addiction si rifletteva nell’origine della malvagità sospendendo ogni soluzione in un epilogo misteriosamente tombale, mentre in R-Xmas si polverizzava in assuefazione alla quotidianità narcotica dello spaccio. Superfluo sottolineare quanto Ferrara abbia trasferito (e seguiti a trasferire) in queste vicende di addiction la propria esperienza di dipendenza da sostanze stupefacenti e alcol. Alla domanda diretta di un intervistatore che gli chiede, riferendosi a Dominique Strauss-Kahn, “Can you relate to this guy?”, la risposta è altrettanto diretta: “Yeah, thousand percent, on every level, man”. Ancora l'intervistatore: “His story, can you relate to that?”. AF: “His story? Absolutely, one thousand percent. You know, guy out of control. You know, his addiction is sexual. You know, an addiction is an addiction. Especially now, you know, I’m going through sobriety and really understanding what that is and how you confront that. You know, it’s a virus that you do with it, you don’t cure it”.

- Have you looked at your life, are you satisfied with what and where you are in your life? What do you want to be different? (lo psicoterapeuta a Matty/Matthew Modine in Blackout).

Ma il titolo ferrariano che intrattiene il dialogo più profondo con Welcome to New York è con ogni evidenza - un’evidenza che Ferrara smentirebbe senz’altro perentoriamente - l’altro film sulla connivenza tra celebrità e dipendenza che il cineasta newyorkese ha scritto insieme a Chris Zois: Blackout. Alla stregua di un Blackout vent’anni dopo, Welcome to New York mette ancora una volta in scena un personaggio la cui notorietà agevola e garantisce la floridezza della dipendenza, fornendogli continue e illimitate occasioni di soddisfacimento fino a renderlo incapace di distinguere il lecito dall’illecito (lo strangolamento in Blackout, l’abuso sessuale in WTNY). Questo dittico sulla celebrità intossicata (Matty un divo del cinema, Devereaux della finanza) presenta del resto un’identica scansione drammaturgica in tre atti (eccesso trasgressivo che sfocia in aggressività, intervento correttivo, epilogo solitario) e personaggi femminili praticamente equivalenti (le caratteristiche delle due compagne di Matty in Blackout, Anne/Béatrice Dalle e Susan/Claudia Schiffer, in WTNY si trovano sintetizzate nella figura di Simone). Quello che cambia sensibilmente, al contrario, è il trattamento della dipendenza, facendo di WTNY il controtipo negativo di Blackout: se in quest’ultimo l’atto favorito dall’eccesso produceva senso di colpa e conduceva a una riconciliazione finale (nella nuotata suicida Matty si ricongiungeva idealmente e in sovrimpressione alla ragazza strangolata), in WTNY l’abuso non solo non genera alcun senso di colpa (l’affermazione “je pense que c’est un peu de ma faute”, pronunciata in francese all’analista, suona decisamente come una concessione poco convinta, lettera morta), ma soprattutto non porta ad alcuna redenzione. Tra tutti i personaggi addicted raffigurati da Ferrara, Devereaux è senza ombra di dubbio il più irredento: “Qu’ils aillent tous se faire inculer!”, tuona rabbiosamente guardando dritto in macchina.

- Why did you accept to play this part?
- Because I don’t like him.

Superate le esitazioni formali tra cinema e video che tempestavano Blackout (precipitato visivo della rimozione omicida operata da Matty e del ritorno del rimosso come immagine video), Ferrara prosciuga la messa in scena da ogni vezzo confusionista e, spalleggiato dal direttore della fotografia Ken Kelsch (al suo fianco da The Driller Killer), leviga la superficie delle immagini fino a raggiungere una consistenza quasi marmorea (i corpi stessi, sagomati dalle luci artificiali dell’hotel o scolpiti dall’illuminazione fredda delle celle, assumono una durezza statuaria). Rigorose, insistenti e preziosamente inclementi, le inquadrature di WTNY non frammentano lo spazio in funzione drammatica, ma osservano una distanza impassibile che privilegia la descrizione fenomenologica e asseconda una recitazione sul filo dell’improvvisazione: si pensi a tutta la parte carceraria con tanto di schedatura/perquisizione integrale e alla lunga sequenza del faccia a faccia tra Devereaux e Simone nel costoso appartamento newyorkese da lei affittato (definito sarcasticamente “our little prison”). È in frangenti come questi che le impressionanti doti performative di Gérard Depardieu, esaltate per contrasto dalla rigidità degli agenti e dalla respingente severità di Jacqueline Bisset, si palesano con cristallina intensità, dispiegando un ventaglio espressivo che va da tonalità infantili ad altezze totemiche passando per grugniti ferini. Sono passati quasi trent’anni da Police (1985, Maurice Pialat), la cui ultima inquadratura risuona intimamente nell’epilogo frontale di Welcome to New York, ma lo sguardo di Depardieu, parafrasando Il mistero della camera gialla, non ha perduto nulla del suo fascino né del suo enigmatico splendore.

Grazie a Cecilia Ermini per il contributo.

Pubblicata su www.spietati.it