martedì 29 gennaio 2013

THE PERVERT'S GUIDE TO IDEOLOGY

Secondo il filosofo sloveno Slavoj Žižek, già autore della sceneggiatura di The Pervert’s Guide to Cinema, diretto nel 2006 dalla stessa Sophie Fiennes, nella nostra società l’individuo non è più obbligato a investire la sua vita, fino a sacrificarla, in una causa (sia essa ideologica o politica), in quanto il suo dovere è divenuto quello di «apprezzare», cioè di trarre godimento da ciò che gli viene offerto. E vista la mole di proposte da cui veniamo bombardati, la ricerca del piacere può essere infinita. A sostegno di questa tesi innovativa, mai così attuale, la regista e il filosofo montano in sequenza le immagini tratte da cult movie e capolavori della storia del cinema (dal catalogo del TFF).





The Pervert’s Guide to Ideology muove da due premesse fondamentali. La prima, ovvia e propedeutica, è il film del 2006 The Pervert’s Guide to Cinema, anch’esso diretto da Sophie Fiennes, sorella dei più celebri Ralph e Joseph. La seconda, meno ovvia e cronologicamente vicina, è la tesi esposta nel primo lavoro importante scritto in inglese da Žižek: The Sublime Object of Ideology (1989), un libro nel quale il filosofo sloveno, zigzagando tra Hegel, Lacan, Marx, Althusser, post-strutturalismo, Soviet jokes, Freud, Pascal, Kafka and so on and so on, analizzava i fenomeni ideologici della contemporaneità alla luce della nozione di “antagonismo” - nozione esplicitamente mutuata da Hegemony and Socialist Strategy (1985) di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Questa, al netto delle eventuali inesattezze di traduzione, la tesi in questione: “L’ideologia non è un’illusione simile a un sogno che costruiamo per sfuggire all’insopportabile realtà; nella sua dimensione basica è una costruzione di fantasia che serve come supporto per la nostra ‘realtà’ stessa: un’‘illusione’ che struttura le nostre effettive, reali relazioni sociali, mascherando in tal modo qualche insopportabile, reale, impossibile nucleo (concettualizzato da Emesto Laclau e Chantal Mouffe come ‘antagonismo’: una traumatica divisione sociale che non può essere simbolizzata). La funzione dell’ideologia non è offrirci un punto di fuga dalla nostra realtà, ma offrirci la realtà sociale come una fuga da qualche reale nucleo traumatico”.

Partiamo dai titoli di testa: se in The Pervert’s Guide to Cinema erano le macchie di Rorschach a suggerire il carattere proiettivo e segretamente normativo del desiderio filmico, in The Pervert’s Guide to Ideology sono le fenditure diagonali à la Saul Bass a tracciare la traiettoria del film: mostrare la frattura profonda che risiede sotto l’apparente omogeneità dell’immaginario cinematografico. Non è possibile sbagliarsi: The Pervert’s Guide to Ideology è un autentico film del terrore. Il cinema come arte delle apparenze è adesso osservato nella dimensione della scissura, della spaventosa spaccatura che esso stesso si premura di colmare con supplementi fantastici, fantasie di pienezza, mistificazioni simboliche. Il cinema, in altri termini, è ora scrutato nella sua natura di surrogato immaginario che occulta la mancanza costitutiva alla base dell’ordine simbolico. L’intero film, consacrato alle trancianti incursioni lacaniane di Žižek, sostituisce alla pulsazione del desiderio che scandiva The Pervert’s Guide to Cinema la logica schiacciante della demistificazione ideologica che conduce alla disintegrazione del grande Altro (il soggetto supposto sapere, la personificazione dell’ideologia). Sotto l’ingannevole e accomodante tessitura della realtà, fa la sua comparsa prima lo scheletro del condizionamento ideologico e infine l’inconsistenza dell’ordine simbolico, il suo strutturarsi intorno a un vuoto, a una sostanziale impossibilità di addomesticare l’antagonismo del reale.

Cruciali in questo senso le due pellicole prese corposamente in esame all’inizio e alla fine del film: Essi vivono (1988) di John Carpenter e Operazione diabolica (1966) di John Frankenheimer. Se il primo illustra la modalità operativa necessaria per disoccultare la menzogna ideologica (le lenti “radiografiche” indossate da John Nada: l’ideologia è nella nostra visione naturale delle cose, per metterla a fuoco occorre inforcare gli occhiali e non toglierli come recita il luogo comune), il secondo mostra l’agghiacciante inesorabilità del meccanismo mistificatorio (il rifiuto dell’identità costruita artificiosamente dall’organizzazione che gestisce le rinascite equivale alla condanna a morte del protagonista). In entrambi i casi il processo di riconoscimento comporta fatica e dolore: la fatica fisica e mentale necessaria a leggere tra le righe della realtà (che, giova ricordarlo, è già il prodotto della simbolizzazione del Reale) e il dolore procurato dall’acquisizione della consapevolezza che dietro le seducenti illusioni del grande Altro si cela il vuoto (un vuoto che è principio generatore di squilibrio/antagonismo e che l’ordine simbolico riveste di apparenze gratificanti). Come esemplifica la sequenza della crocifissione di L’ultima tentazione di Cristo, la disintegrazione dell’ordine simbolico coincide con l’esperienza di un’abissale insensatezza, del sordo caos delle cose, dell’assenza radicale di significato: “There is no ‘big Other’”, proclama trionfante Žižek.

Ma perché le guide fiennes-žižekiane sono perverse? In realtà l’aggettivo pervert si lega per zeugma anche al sostantivo cinema. Il cinema è perverso in senso lacaniano: “Nonostante sia comunemente associata alla cosiddetta deviazione sessuale, la perversione è anche un termine tecnico che la psicanalisi lacaniana usa per indicare la certezza che un soggetto ha di sapere ciò che l’Altro vuole. Il perverso è dunque definito da una mancanza di interrogazione. Egli è convinto di conoscere il significato del desiderio dell’Altro” (Tony Myers, Introduzione a Žižek, il melangolo, 2012, p.125). Parafrasando Žižek, il cinema è un’arte perversa perché non ci offre quello che desideriamo, ma ci dice precisamente come desiderare, ci addestra meticolosamente a farlo. L’isterica perversità delle guide risiede dunque nella messa in questione di questa certezza, nell’interrogazione deliberatamente eccessiva e oscena del cinema come ultimate pervert art, nella ricerca di quei punti di aggraffatura (points de capiton) che fissano i significanti al significato, stabilendo e unificando arbitrariamente il campo ideologico. Detto altrimenti, quelle di Žižek sono letture e interpretazioni che, pur intrecciando le teorie di Lacan, Hegel e Marx, creano le proprie condizioni di possibilità (ed è questo, secondo chi scrive, a renderle così suggestive e persuasive). Si tratta di un’autonomia ermeneutica che in qualche modo le sottrae alla confutazione diretta, trasformandole quasi in articoli di fede: in questo senso Žižek critica l’ideologia dialetticamente, contrapponendole cioè un altro campo ideologico, strappando i significanti dai significati e proponendo altri points de capiton (il riscatto rivoluzionario enunciato da Benjamin per esempio).

Naturalmente è più che lecito diffidare della logorrea dogmatica di Žižek, del suo compulsivo esibizionismo istrionico che Sophie Fiennes asseconda in tutto e per tutto (dalla riproduzione ad personam dei set dei film citati all’impiego di materiali televisivi sugli attentati norvegesi di Anders Breivik e sulle sommosse londinesi dell’agosto 2011). Così premurosamente protetto e spalleggiato, il gigante di Lubiana non parla, pontifica; non esprime giudizi, sentenzia. E quando non è direttamente in scena, la sua voce narrante evoca una costellazione cinematografica prontamente portata sullo schermo a dimostrazione/delucidazione/amplificazione delle sue tesi: i titoli chiamati in causa sono davvero troppi per essere menzionati dettagliatamente e ordinatamente: basti sapere che nei suoi 134' The Pervert’s Guide to Ideology estrae dal cilindro sequenze da Tutti insieme appassionatamente, Arancia meccanica, M*A*S*H, Full Metal Jacket, Il trionfo della volontà, Lo squalo, The Fall of Berlin, Gli amori di una bionda, Titanic, Brazil, Sentieri selvaggi, Taxi Driver, Zabriskie Point

Vero è che il più delle volte che Žižek si riferisce al cinema lo fa in funzione strumentale: usa le situazioni narrative per illustrare punti teorici o riflettere sull’ideologia contemporanea. Una tattica, questa, che spiega la preponderanza di esempi hollywoodiani: è nel cinema hollywoodiano che, sostiene Žižek, si può cogliere l’ideologia che struttura la nostra esperienza quotidiana nella sua forma distillata, quintessenziale, “at its purest”. Ma se l’analisi filmica in quanto tale è piuttosto carente (già nel 2005 Bordwell aveva gioco facile nel demolire il metodo argomentativo žižekiano), le sue scorribande ermeneutiche hanno il non trascurabile merito di spingersi nelle pieghe nascoste delle sequenze, mostrandone le contraddizioni interne o le risonanze inattese. Anche la più neutra delle descrizioni partorisce un guizzo, un’intuizione, uno scatto del pensiero: a prescindere dai titoli di verità delle affermazioni sparate a raffica sullo spettatore, l’imbonitore è inseparabile dal pensatore, l’incantatore di serpenti dal filosofo, il clown dal maître à penser. Singolare compresenza che non molla mai l’osso (“Lo spirito è un osso”, replicherebbe Žižek citando Hegel), neanche quando, dopo i titoli di coda, il cadavere di Leonardo DiCaprio affogato in Titanic torna a galla con le fattezze di Slavoj a pugno chiuso. Impossibile resistere alla tentazione di leggere Žižek con Žižek stesso. In The Pervert’s Guide to Cinema, collegando la nozione di oggetto parziale autonomo a Il dottor Stranamore, il filosofo sloveno si esprimeva in questi termini: “Forse la parte definitiva del corpo che meglio interpreta il ruolo di oggetto parziale autonomo è il pugno o, piuttosto, la mano. Questa mano che si alza è il punto chiave del film. Non è semplicemente qualcosa di estraneo a lui, ma il vero nucleo della sua personalità”. Siamo, qui, dalla parte del pugno.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

giovedì 17 gennaio 2013

Lo strano caso del 7 e del 22: come improvvisarsi soggetti del cinema

mon_voyageIl cinema non è un soggetto. Tutt’al più è un oggetto di riflessione. Nelle sue innumerevoli manifestazioni chiama sì in causa intere legioni di soggetti reali - i cosiddetti addetti ai lavori - ma nessuno di loro, per quanto si affanni a sottometterlo alla propria volontà, ne può controllare l’esuberanza semantica, la spinta centrifuga. Il cinema, insomma, è un’entità paradossale: accoglie docilmente in sé la pulsione espressiva di soggetti disparati, ma non si riduce a tradurla pedissequamente, a dattilografarla. Si presta senza assoggettarsi, si concede mantenendo una certa indipendenza. Questa autonomia non ha niente di soggettivo, d’intenzionale: si configura esattamente come un surplus, un’eccedenza, una resistenza all’ordine imposto da forze estranee. Non c’è autorialità o logica spettacolare che tenga: la materia cinematografica, per quanto pensata meticolosamente o generata digitalmente, sfugge alla traduzione dell’idea che l’ha concepita, resiste alla manipolazione integrale. Ebbene, questo surplus è precisamente l’altro del cinema. Un’alterità che si concretizza prendendo le distanze dalle intenzioni della messa in scena, giacendo sotto di essa, sedimentandosi in un fondo letteralmente inesauribile, suscettibile di infinite scorribande interpretative.

Osservato da questa prospettiva, il confronto tra film e spettatore è quello tra un soggetto e un testo che, sebbene progettato a tavolino, conserva una certa indisciplina, un’inevitabile dose di indocilità. È nel caso, in definitiva, che mi piace indovinare quella dimensione residuale che costituisce il corpo del cinema, un corpo senza soggetto. Di fronte all’immagine cinematografica, sta a me in quanto spettatore cogliere questo giacimento di alterità, questo campo di virtualità sottointerpretative. Non si tratta più di rinchiudere la catena filmica in strutture sempre più forti e logicamente necessitate, ma, al contrario, forzare gli anelli deboli, rompere quella logica di implicazione che costringe le inquadrature a dialogare tra loro, a tenersi strette in un discorso di bronzea necessità. Se l’altro del cinema è un corpo casuale senza soggetto, sarò io il suo estemporaneo soggetto vicario: nella casualità troveremo un terreno d’intesa, è questa l’ipotesi che mi muove qui e ora.

Ovviamente il lettore paziente (se mi ha seguito fin qui la pazienza fa senz’altro parte del suo corredo di qualità) e minimamente smaliziato sentirà odore di nozze coi fichi secchi: è una piccola malvagità che colpisce a fondo. Ciononostante mi pare che questo passaggio dal sintomatico (la lettura rigorosamente codificata delle intenzioni del testo) al somatico (l’interrogazione deliberatamente eccessiva della materia filmica) metta in luce una zona fluttuante tra senso e sensorialità, un richiamo ai nostri sensi non ancora precisato semanticamente ma tutt’altro che innocuo o cinematograficamente neutro. In modo dilettantesco e velleitario, mescolo arbitrariamente il senso ottuso e il punctum di Barthes, l’enunciazione impersonale di Metz , l’interpellazione di Althusser e il sinthome lacaniano ripreso da Žižek (“una macchia inerte che resiste alla comunicazione e all’interpretazione, una macchia che non può essere inclusa nel circuito del discorso”)1. Ma non occorre ricorrere ad altisonanti autorità per giustificare un gioco in fin dei conti gratuito e vagamente solipsistico: il godimento sta nell’abbandonarsi al caso, fare della casualità il principio stesso del gioco.

Mon_Voyage_dHiver_Quando e come nasce questa ipotesi ludica? Durante una visione notturna di Mon Voyage d’Hiver (2003), terzo lungometraggio di Vincent Dieutre che racconta il suo viaggio in Germania in compagnia del figlioccio Itvan. A Dresda, Vincent incontra Werner, un vecchio amante, e i due si recano in una sala da tè, raggiunti poco dopo da Itvan. I due si scambiano gesti affettuosi in seguito a un regalo fatto da Werner a Vincent: Itvan li osserva divertito, sorridendo, poi si guarda intorno e dalla sua espressione trapela un’ombra d’imbarazzo. Il suo sguardo circospetto e irrigidito dura soltanto qualche frazione di secondo, ma è una stilettata gelida che squarcia l’unità affettiva della scena: l’atmosfera calda e cordiale della situazione precipita nella ghiaccia condiscendenza, nella vergogna. Si tratta di uno sguardo scandaloso che lacera irreparabilmente l’intera sequenza: uno sguardo molesto, accidentale e traumatico che il cinema incorpora imperturbabile.

Questo eccesso è esattamente ciò che m’irretisce: mi trovo impigliato in una rete di interrogativi ai quali non posso rispondere con certezza. Perché quello sguardo è lì? L’impressione contraddittoria è un effetto della sequenza o deriva da una mia proiezione inconsapevole? Mi riconosco in quello sguardo? Che cosa vuole da me quell’immagine? Diventa insomma impossibile separare oggetto filmico e soggetto spettatoriale: i codici di cui dispongo (narrativi, iconografici, prossemici) mi aiutano fino a un certo punto, superato il quale divengono sdrucciolevoli, inaffidabili, insufficienti. E non ve ne sono altri che vengano a colmare questa lacuna: faccio qui un’esperienza-limite, entro in un territorio non simbolizzabile, non riducibile a corrispondenze univoche. Un territorio indiscreto collocato tra senso e sensorialità nel quale l’altro del cinema (il suo corpo eccessivo) si manifesta fuggevolmente e casualmente, ma con una sconcertante intensità d’interpellazione.

Ora, una piccola indagine consacrata all’idea del caso come altro del cinema esige un metodo il più possibile casuale. Ho dunque domandato a un’amica di suggerirmi due numeri (7 e 22) che mi orienteranno nella scelta dei film e delle sequenze da prendere in considerazione: il settimo film in ciascuno dei luoghi sparsi nei quali accumulo cassette/dvd e la sequenza del ventiduesimo minuto. L’obiettivo consisterà nello scovare qualcosa di eccedente alla logica della messa in scena, qualcosa che sveli il corpo del cinema inteso come eccesso non simbolizzabile, come ostacolo alla decodifica convenzionale della catena filmica.

Finis_Terrae1- Finis Terrae (1929), Jean Epstein. La vicenda dei quattro pescatori d’alghe sull’isola di Bannec non mi interessa, attiene alla sfera dell’aneddotico, del narrativo in senso stretto. Quello che mi colpisce è invece un’inquadratura di pochi secondi che scocca precisamente al ventiduesimo minuto. Nell’inquadratura precedente, il giovane Ambroise ha allontanato in malo modo il più maturo compagno di pesca dalla baracca e quest’ultimo, a braccia conserte, entra nella nostra inquadratura (un campo medio) dalla sinistra, fermandosi quasi al centro dello spazio e dando le spalle alla cinepresa. Il suo corpo è l’unico elemento verticale dell’immagine e occupa circa un terzo dell’altezza complessiva del quadro. Qualche passo dietro di lui, alla sua sinistra, un modesto mucchio di alghe lasciate a seccare. Davanti a lui delle formazioni rocciose arrotondate oltre le quali si scorge un’insenatura e, più in profondità, la vastità del mare. La baracca invece è leggermente più in basso, nascosta dalle rocce. Ma, a dominare il quadrante superiore destro dell’inquadratura, un imponente masso di forma ellittica, completamente scuro, che ostruisce la visuale.

Una lettura banalmente simbolica ascriverebbe l’intera composizione dell’inquadratura alla retorica narrativa, percorrendo l’immagine dal primo piano allo sfondo e da sinistra a destra: il piccolo mucchio di alghe a sinistra rappresenterebbe l’insufficienza del lavoro svolto da Ambroise (il motivo fondamentale del contrasto tra i due personaggi), la postura a braccia conserte dell’esperto pescatore indicherebbe la sua disapprovazione nei confronti del più giovane e inoperoso collega, le rocce oggettiverebbero la distanza che li separa e l’insenatura sullo sfondo suggerirebbe il dovere che li aspetta (raccogliere quante più alghe possibili prima dell’arrivo dell’autunno). Qui siamo precisamente all’interno della logica di implicazione: leggiamo i segni iconici in base alle informazioni accumulate precedentemente. Tuttavia la minacciosa presenza del macigno che domina la parte destra dello schermo, oscurandone circa un quarto e proiettando un’ombra irregolare sul terreno, crea un vero e proprio buco nero nell’inquadratura. La sua sagoma ovoidale e bitorzoluta toglie aria all’immagine, ostruendola prepotentemente: è come se nel tessuto dell’immagine si producesse uno strappo in cui il visibile viene a mancare. Indifferente alle esigenze della messa in scena, questo buco nero risucchia il mio sguardo senza offrirmi scappatoie metaforiche: resiste alla simbolizzazione come un corpo estraneo. È un punto cieco, un vuoto che mi interroga e mi attrae nella sua oscena, eccessiva assenza di significato.

Dupont_Lajoie2- Dupont Lajoie (1975), Yves Boisset. La sequenza del ventiduesimo minuto ci porta in una situazione di ordinario squallore: una cena all’aperto in un camping della Francia meridionale alla quale partecipano tre famiglie di vacanzieri (i Lajoie, gli Schumacher e i Colin). Brigitte (Isabelle Huppert), la giovane e attraente figlia dei Colin, raggiunge il gruppo rientrando da una passeggiata con due coetanei. Saluta cordialmente i presenti, assaggia cortesemente una delle leccornie alsaziane portate dagli Schumacher e, dicendosi stanca, si congeda rapidamente dalla compagnia per andare nella sua tenda, a pochi metri dalla tavolata. Non appena entrata nella tenda, accende la lampada da campeggio sistemata a terra dietro di lei e la sua silhouette appare in controluce. Georges Lajoie, ripreso in mezza figura, rivolge lo sguardo verso la tenda preparando l’inquadratura successiva: una soggettiva sull’ombra di Brigitte che si toglie il vestito. Un primo piano sullo sguardo concentrato di Georges sottolinea il desiderio dell’uomo e ribadisce la qualificazione erotica dell’inquadratura seguente: un’altra soggettiva ravvicinata sul corpo nudo di Brigitte che traspare dal tessuto della tenda.

In questa sequenza siamo in pieno regime di manipolazione spettatoriale: non solo la situazione implica un alto tasso di inverosimiglianza (i genitori di Brigitte sono a pochi metri da Georges e il suo sguardo verso la tenda è troppo insistente per non essere notato), ma le due soggettive dell’uomo sono troppo vicine alla tenda rispetto alla sua posizione effettiva nella scena. Funziona qui la vecchia convenzione ottico-psicologica (ne parlava già Hugo Münsterberg nel 1916) dell’ingrandimento dell’oggetto osservato come equivalente cinematografico del fenomeno psichico dell’attenzione. Eppure è proprio questa procedura manipolatoria apparentemente innocente a provocare altri due fenomeni strettamente connessi tra loro. Il primo consiste nell’impressione di fantasia erotica creata dall’eccessiva prossimità alla tenda delle soggettive (due particolari anziché campi medi o totali come prescriverebbe il protocollo realista): la superficie semitrasparente della tenda diviene lo schermo sul quale Georges proietta il desiderio rapinoso nei confronti di Brigitte, in qualche modo producendo un’immagine visibile soltanto da lui. Il secondo, a un livello ancora più inarticolato, concerne la materia stessa dell’immagine: le ombre disegnate dal corpo di Brigitte sulla superficie inclinata e ondeggiante della tenda sono forme cangianti e distorte che alterano vistosamente il suo profilo, sottoponendolo a una metamorfosi inquietante. L’eccesso di prossimità, escogitato artificiosamente per intensificare la carica desiderante delle soggettive, finisce quindi per creare un effetto contrario: la trasformazione della sagoma di Brigitte in figura minacciosamente metamorfica. Se la messa in scena feticizza la fantasia erotica riducendo il corpo femminile a oggetto di puro consumo visivo, il corpo del cinema polverizza la logica della messa in scena disgregandone la compattezza iconico-simbolica. Detto altrimenti, è come se la fantasia erotica, approssimandosi troppo al desiderio che l’ha generata, mostrasse segni di cedimento iniziando materialmente e pericolosamente a deformarsi.

Contemporaneamente alla stesura di questo piccolo saggio di ludica follia, sto rileggendo Hegel e il mondo alla rovescia di Maria Moneti (1986), professoressa di filosofia morale all’Università di Firenze scomparsa il 6 agosto 2011. A pagina quindici, trovo questo passo: “Allora il cammino fenomenologico consiste nel lavoro mediante il quale ciò che è solo «noto» viene problematizzato e riportato all’attenzione della coscienza, conosciuto, e nel lavoro per il quale ci si riappropria del mondo esterno e si restituisce alla vita ciò che stava là inerte e opaco, traccia divenuta ormai incomprensibile”. Pur trasferita indebitamente dal confronto tra coscienza comune e sapere filosofico alla relazione tra soggetto spettatoriale e corpo del cinema, la traiettoria che sto seguendo mi pare al tempo stesso contraria e conseguente a questo “cammino fenomenologico”: contraria poiché intende strappare alla coscienza l’illusione di ottenere la conoscenza assoluta dell’immagine filmica (nell’immagine c’è sempre qualcosa che intralcia il lavoro interpretativo, qualcosa che mi impedisce di decodificarla giudiziosamente, di farla coscienziosamente mia). E conseguente in quanto intende restituire effettivamente alla vita “ciò che sta là inerte e opaco”, con la cruciale precisazione che questa “traccia divenuta ormai incomprensibile” non appartiene al mondo, allo spettatore o alla Ragione, ma al cinema inteso come corpo senza soggetto. Non nascondo la natura confusamente teorica e metodologicamente empirica di questa ipotesi, ciononostante mi pare essenziale rendere conto di una sensazione che mi ha investito troppe volte durante la visione per essere ignorata o liquidata come trascurabile impressione psicologica.

Giochi_proibiti3- Giochi proibiti (Jeux interdits, 1952), René Clément. Ironia del caso, il titolo del film si adatta perfettamente alla clandestinità della mia investigazione, al suo carattere teoricamente illecito e concettualmente impertinente. Tra il ventiduesimo e il ventitreesimo minuto di questa celeberrima pellicola succede qualcosa di obliquamente attinente al discorso fin qui sviluppato, qualcosa che illumina in negativo la dialettica tra logica della messa in scena e irriducibilità simbolica del caso. Georges (Jacques Marin), il fratello maggiore del piccolo Michel (Georges Poujouly), è nel suo letto ma non riesce a dormire a causa delle contusioni riportate durante un incidente con un cavallo imbizzarrito. Nel cuore della notte, il sofferente Georges è disturbato da una farfalla che svolazza intorno a una lampada a olio e proietta la sua ombra sulle pareti della stanza. La falena urta a più riprese contro l’ampolla di vetro che protegge la fiamma, producendo un fastidioso tintinnio e finendo per cadervi dentro. La breve sequenza (circa 30”) è introdotta da una dissolvenza incrociata ed è composta da otto inquadrature, di cui soltanto due sono inequivocabilmente qualificate come soggettive (la prima è una lenta panoramica dal basso verso l’alto a seguire lo spostamento dell’ombra della falena dalla parete al soffitto e la seconda è un’inquadratura fissa sulla lampada in cui la farfalla termina definitivamente il volo).

Se osservata in filigrana, l’intera sequenza mostra con esemplare nitidezza il fallimentare tentativo di inglobare interamente il caso nella strategia della messa in scena. Qui l’apparato simbolico è piuttosto forte e si articola su tre livelli distinti: il primo poggia genericamente sulle connotazioni funeste che la cultura popolare attribuisce all’insetto notturno (sventura, presagio di morte), il secondo collega il comportamento autodistruttivo della falena alla situazione del moribondo (di fatto Georges, ignorando la raccomandazione della madre a non toccare il cavallo, si è precipitato testardamente verso la sua morte come la falena con la fiamma della lampada) e il terzo, infine, associa il volo della farfalla al raid (situato all’inizio del film) degli aerei nazisti sul convoglio dei civili francesi che nel giugno del 1940 stavano migrando verso il Sud per sfuggire all’invasione tedesca (non è affatto fortuito che, immediatamente prima dell’incidente di Georges, uno Stuka voli a bassa quota facendo scattare nervosamente il cavallo). La catena simbolica è dunque così stretta e necessitata da disegnare un triangolo tra superstizione, narrazione e storia (i bombardieri nazisti hanno effettivamente attaccato a più riprese i civili francesi durante l’“Esodo del 1940”).

Tuttavia basta fare un passo indietro e uscire dalla concatenazione simbolica per accorgersi che la sequenza, cinematograficamente, è gravata da un’artificiosità imbarazzante: il gioco di ombre sulle pareti e sul soffitto tradisce platealmente la natura di espediente luministico, il fraseggio tra soggettive e primi piani risulta sintatticamente schematico e il tintinnio della falena sull’ampolla di vetro suona fragorosamente inverosimile. Sarebbe fuorviante attribuire all’inadeguatezza tecnica questo sapore di artificio: dal punto di vista iconografico la sequenza tiene perfettamente e la triangolazione tra i tre vertici semantici si chiude senza interruzioni. Ciò che stride, invece e molto più precisamente, è il tentativo di simulare un evento casuale e iscriverlo a priori nella geometria simbolica. Quando si atteggia a caso, insomma, la messa in scena non può che imbattersi in un limite intrinseco: l’impossibilità di farsi corpo, di accogliere in sé l’altro da sé, di farsi cinema. Ebbene, qui nulla è lasciato al caso e proprio per questo motivo il caso, espulso perentoriamente dalla messa in scena, si prende la rivincita gettando sull’intera sequenza l’ombra della mistificazione. Altrimenti detto, il corpo del cinema, in virtù della sua assenza, smaschera impietosamente la natura di messinscena della messa in scena. Giunto in qualche modo al termine di questa velleitaria esplorazione teorico-critica, mi spingerei addirittura ad affermare che più il lavoro di regia si fa consapevole e controllato, più il cinema si cristallizza in teorema incorporeo e ideologico. Ma spingersi a tanto sarebbe davvero troppo dogmatico e sproporzionatamente ambizioso: mi fermo qui, alquanto disorientato, tra il 7 e il 22.


Nota

1
Žižek (1989, pp. 81-82) recupera il neologismo lacaniano di sinthome definendolo in questi termini “This, then, is a symptom: a particular, ‘pathological’, signifying formation, a binding of enjoyment, an inert stain resisting communication and interpretation, a stain which cannot be included in the circuit of discourse, of social bond network, but is at the same time a positive condition of it”.


Bibliografia

Moneti M. (1986): Hegel e il mondo alla rovescia, La Nuova Italia, Firenze
Žižek S. (1989): The Sublime Object of Ideology, Verso, London and New York


Filmografia

Dupont Lajoie (Yves Boisset 1975)
Finis Terrae (Jean Epstein 1929)
Giochi proibiti (Jeux interdits) (René Clément 1952)
Mon Voyage d’Hiver (Vincent Dieutre 2003)

Intervento pubblicato su www.uzak.it.

lunedì 14 gennaio 2013

COINCIDENTIA OPPOSITORUM

Traduzione dilettantesca da The Sublime Object of Ideology di Slavoj Žižek (Verso, London and New York, 1989). Il passaggio in questione (pp.191-193) mi pare uno dei punti più significativi di un libro che cresce di pagina in pagina.


"C'è una serie di altre opposizioni che definiscono il concetto lacaniano di Reale:

- Abbiamo il Reale come punto di partenza, la base, il fondamento del processo di simbolizzazione (è per questo che Lacan parla di 'simbolizzazione del Reale') - vale a dire il Reale che precede l'ordine simbolico ed è successivamente strutturato da esso quando viene preso nella sua rete: questo è il grande motivo lacaniano della simbolizzazione in quanto processo che mortifica, prosciuga, svuota, incide la pienezza del Reale del corpo vivente. Ma il Reale è allo stesso tempo prodotto, avanzo, resto, residuo di questo processo di simbolizzazione, l'eccesso che sfugge alla simbolizzazione e che in quanto tale è prodotto dalla simbolizzazione stessa. In termini hegeliani, il Reale è simultaneamente presupposto e posto dal simbolico. Nella misura in cui il nocciolo del Reale è jouissance, questa dualità assume la forma di una differenza tra jouissance, godimento, e plus-de-jouir, il surplus-del-godimento: jouissance è la base sulla quale lavora la simbolizzazione, la base svuotata, disincarnata, strutturata dalla simbolizzazione, ma questo processo produce allo stesso tempo un residuo, una rimanenza, che è il surplus-del-godimento.

-  Il Reale è la pienezza della presenza inerte, positività, niente è mancante nel reale - cioè la mancanza è introdotta soltanto dalla simbolizzazione; è il significante che introduce un vuoto, un'assenza nel Reale. Ma nel contempo il Reale è in se stesso un buco, una fessura, un'apertura nel centro dell'ordine simbolico - è la mancanza attorno alla quale l'ordine simbolico è strutturato. Il Reale come punto di partenza, come base, è una pienezza positiva senza mancanza; in quanto prodotto, residuo della simbolizzazione, è al contrario il vuoto, la vacuità creata, circoscritta dalla struttura simbolica. Possiamo anche considerare la stessa coppia di opposizioni dalla prospettiva della negatività: il Reale è qualcosa che non può essere negato, un inerte dato positivo che è insensibile alla negazione, che non può essere preso nella dialettica della negatività; ma contemporaneamente dobbiamo aggiungere che è così perché il Reale stesso, nella sua positività, non è altro che l'incarnazione di un certo vuoto, mancanza, negatività radicale. Non può essere negato perché è già in sé, nella sua positività, nient'altro che l'incarnazione di una pura negatività, vacuità. È per questo che l'oggetto reale è un oggetto sublime in senso strettamente lacaniano - un oggetto che è soltanto la materializzazione della mancanza nell'Altro, nell'ordine simbolico. L'oggetto sublime è un oggetto che non può essere osservato troppo da vicino: se ci avviciniamo troppo, l'oggetto perde le sue caratteristiche sublimi e diviene un volgare oggetto ordinario - può persistere solo in uno spazio e in uno stato intermedio, osservato da una certa prospettiva, intravisto. Se lo vogliamo vedere alla luce del sole, si tramuta in un oggetto quotidiano, si dilegua, precisamente perché in sé non è niente. Prendiamo una celebre scena da Roma di Fellini: gli operai che stanno scavando delle gallerie per la metropolitana trovano i resti di alcuni edifici romani; chiamano gli archeologi e, quando entrano tutti insieme negli edifici, ad attenderli c'è una vista meravigliosa: pareti piene di splendidi affreschi di figure immobili e malinconiche - ma le pitture sono troppo fragili, non possono sopportare l'aria aperta e immediatamente cominciano a dissolversi, lasciando gli spettatori soli davanti alle pareti bianche...

- Come ha già fatto notare Jacques-Alain Miller (nei suoi seminari non pubblicati), lo statuto del Reale è allo stesso tempo quello di una contingenza corporea e di una consistenza logica. In prima istanza il Reale è lo shock di un incontro contingente che interrompe la circolazione automatica del meccanismo simbolico; un granello di sabbia che impedisce il suo regolare funzionamento, un incontro traumatico che danneggia l'equilibrio dell'universo simbolico del soggetto. Ma, come abbiamo visto a proposito del trauma, precisamente in quanto irruzione di una contingenza totale, l'evento traumatico non è situato in alcun luogo nella sua positività, solo successivamente può essere costruito logicamente come un punto che sfugge alla simbolizzazione.

- Se proviamo ad afferrare il Reale  dalla prospettiva della distinzione tra quid e quod, tra le proprietà di una natura simbolico-universale attribuita a un oggetto e questo stesso oggetto nella sua datità [traduco così il termine "givenness"], il surplus di una X che sfugge nella sua positività alla rete di determinazioni simbolico-universali (...), dovremmo prima dire che il Reale è il surplus del quod sul quid, una pura positività al di là delle serie di proprietà, al di là di un set di descrizioni; ma allo stesso tempo l'esempio del trauma prova che il Reale è anche l'esatto opposto: un'entità che non esiste ma che nondimeno ha una serie di proprietà.

- Infine, se proviamo a definire il Reale nella sua relazione alla funzione dello scritto (écrit, non l'écriture post-strutturalista), dobbiamo naturalmente constatare in primo luogo che il Reale non può essere iscritto, che sfugge all'iscrizione (il Reale della relazione sessuale, per esempio); ma nel contempo il Reale è lo scritto stesso in quanto opposto al significante - l'écrit lacaniano ha lo statuto di un oggetto, non di un significante."

Se gli ultimi due paragrafi a dire il vero non sono il massimo della chiarezza (ma avere letto le precedenti 190 pagine aiuta), i primi tre mi sembrano mettere bene in evidenza il carattere paradossale del concetto. E al tempo stesso mi sembrano rendere conto delle continue oscillazioni e contorsioni semantiche cui la nozione di Reale è inevitabilmente destinata. Nel libro di Žižek a prevalere è ora l'aspetto positivo ora quello negativo del concetto, con tutte le conseguenze del caso. In questo passaggio si coglie perfettamente la plasticità del Reale (e dell'oggetto sublime): entità la cui consistenza si dà a vedere soltanto come compresenza di eccesso e mancanza.

martedì 8 gennaio 2013

NAMELESS GANGSTER: RULES OF THE TIME

1982. Ik-hyun, funzionario della dogana coreana prossimo al licenziamento, s’inventa trafficante di droga, smerciando una partita di eroina ai giapponesi. Da quel momento la sua vita cambia radicalmente: muovendosi con abilità nel sottobosco criminale di Busan, Ik-hyun stringe un fruttuoso sodalizio con il boss Hyung-bae, sbrigativo e spietato, ritrovandosi in breve tempo ai vertici dell’organizzazione malavitosa più potente della città. Ma l’improvvisa offensiva della polizia aprirà le prime crepe nell’impero costruito dai due, minando per sempre il rapporto che li lega (dal catalogo del TFF).








Saga gangsteristica dai risvolti familiari, Nameless Gangster: Rules of the Time rappresenta la parabola criminale di Ik-hyun (Choi Min-sik, al ritorno sul grande schermo dopo I Saw the Devil) su uno sfondo storico allargato: dalle retate dei primi anni ’60 alla guerra al crimine dichiarata dal presidente Roh Tae-woo negli anni ’90, passando per il “rieducativo” Samchung Prison Camp istituito all’inizio degli anni ’80 dall’allora presidente Chun Doo-hwan. Parola chiave: “Daebu”, termine che designa sia un parente collaterale più anziano sia un “padrino” o “boss” malavitoso. Doppia accezione che il film sfrutta per creare un cortocircuito gravido di conseguenze: Choi Ik-hyun è il Daebu - “significato a” - di Choi Hyung-bae (Ha Yung-woo, già protagonista di The Yellow Sea), ma quest’ultimo è il Daebu - “significato b” - di una gang in ascesa nella città di Pusan. Naturalmente l’obiettivo segreto di Ik-hyun sarà quello di scippare il “significato b” a Hyung-bae e diventare così un Daebu a pieno titolo.

Tirare in ballo antecedenti coppoliani o scorsesiani quali Il padrino o Quei bravi ragazzi non pare troppo calzante né di grande aiuto per individuare le matrici profonde del terzo lungometraggio di Yoon Jong-bin - già autore di The Unforgiven (2005) e Beastie Boys (2008). Inevitabilmente qualche concordanza coi modelli statunitensi sussiste, ma si tratta per lo più di assonanze superficiali riconducibili ad analogie di atmosfera. Anche l’associazione suggerita dalla presenza di Choi Min-sik e Ha Yung-woo con I Saw the Devil (2010) e The Yellow Sea (2010) risulta piuttosto fuorviante. Nameless Gangster ha ben poco a che fare con l’opprimente cupezza del noir di Kim Jee-woon o con la dirompente violenza dell’action di Na Hong-jin. La sua impronta storico-politica si riallaccia piuttosto ai gangster movie di Im Kwon-taek, segnatamente alla trilogia General’s Son (1990, 1991, 1992) e soprattutto al più recente Raging Years (2004): film che, sebbene da prospettive diverse e decisamente più tradizionalistiche di quella di Yoon, impiegano il genere gangsteristico per coniugare intrattenimento spettacolare e affresco storico.

Legame genetico che, secondo chi scrive, si manifesta sia nel pretestuoso patriottismo di Ik-hyun (giustifica la decisione di piazzare dieci chili di eroina sul mercato giapponese come vendetta per la trentennale occupazione coloniale) sia nella basicità della messa in scena: lungi dallo sfociare in vertiginoso cruore o dal trasfigurare in esasperato iperrealismo come nelle succitate pellicole di Kim e Na, qui l’azione assume configurazioni audiovisive che oscillano tra il convenzionale e il caricaturale, puntando più sulla qualità grezza dei combattimenti e dei regolamenti di conti che sul virtuosismo cinematografico. Pur non essendo una produzione ad alto budget, Nameless Gangster: Rules of the Time si è comunque rivelata una pellicola di grande successo, totalizzando più di quattro milioni e mezzo di spettatori, piazzandosi tra i primi dieci film più visti in Corea nel 2012 e aggiudicandosi ben quattro Blue Dragon Film Award (i secondi riconoscimenti nazionali in ordine d’importanza dopo i Grand Bell Awards): Best Actor a Choi Min-sik, Best Screenplay a Yoon Jong-bin, Best Music a Cho Young-wuk e Popularity Award per Ha Yung-woo.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

mercoledì 2 gennaio 2013

LEVIATHAN

Lungo le coste di New Bedford, nel Massachusetts, la pesca è un’antica tradizione. Come nel Moby Dick di Melville, è la metafora dell’eterno scontro tra uomo e ambiente, una lotta per la sopravvivenza in cui il rispetto convive con il timore e i sentimenti trascendono la razionalità. In un paesaggio ostile e impetuoso, navi con la prua puntata verso il mare aperto solcano onde minacciose, mentre i gabbiani volteggiano in un cielo spesso plumbeo, dando un’aria suggestiva a una sfida tra uomo, tecnologia e natura che si attua secondo traiettorie millenarie (dal catalogo del TFF).

Senza storia, senza igiene, senza pedagogia, racconto, cinema-meraviglia, l’uomo briciola per briciola. Esclusivamente questo, e di tutto il resto te ne infischi (Jean Epstein).

Premio FIPRESCI al 65º Festival di Locarno e Premio Speciale della sezione TFFdoc al 30º Torino Film Festival, Leviathan scaraventa lo spettatore a bordo di un peschereccio al largo delle coste del Massachusetts. Situazione limite: equipaggio ridotto al minimo, circostanze ambientali tutt’altro che favorevoli, operazioni di sfibrante fatica, costante tensione per l’esito della pesca. Eppure Leviathan non è un documentario cronachistico sui membri dell’equipaggio e sulle difficili condizioni del loro lavoro, ma una sorta di installazione galleggiante che si nutre delle continue e feroci sollecitazioni sensoriali generate dalla navigazione in mare aperto. Inizialmente interessati a New Bedford, altrimenti nota come “The Whaling City”, la città nella quale Melville scrisse Moby Dick, Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel hanno rapidamente spostato la loro attenzione dall’industria ittica su terra alla pesca in alto mare non appena un equipaggio si è reso disponibile a imbarcare una donna (tradizionalmente avere una donna a bordo significa cattiva fortuna).

La violenza non è il fine, la violenza è il mezzo. Credo che non ci sia nient’altro che la verità che conti, il resto non conta (Georges Franju).

Fin dalla prima uscita (sei in tutto, ciascuna di due settimane circa), Castaing-Taylor e Paravel hanno percepito la violenza fisica ed emotiva della situazione e, perdute alcune videocamere durante la turbolenta navigazione, si sono successivamente procurati una dozzina di GoPro (videocamere sportive direttamente indossabili dall’operatore e provviste di custodie di plastica impermeabile). Distribuendo i punti macchina sull’intera superficie dell’imbarcazione e affidando alcune videocamere ai pescatori senza dare loro indicazioni, il film si è trasformato in una vera e propria reazione a ciò che stava succedendo a bordo. La pluralità di prospettive è insomma divenuta il principio generativo e compositivo di un progetto non definito a priori, ma configuratosi liberamente e progressivamente. Interventi notturni sui meccanismi delle reti a strascico, immagini ultraravvicinate dei pesci intrappolati, riprese frontali del peschereccio che beccheggia minacciosamente, evoluzioni ottiche ottenute assicurando la videocamera a un’asta ora sollevata verso i gabbiani in volo ora immersa nell’acqua gorgogliante: persino l’audio catturato dalle piccole videocamere, distorto dalla protezione impermeabilizzante, crea un universo sonoro tenebrosamente aggressivo, tempestato da riverberi liquidi e rumori scroscianti. La dimensione viscerale della contingenza - essere lì, in balìa degli elementi, sospesi in aria o gettati in mare - prende prepotentemente il sopravvento.

Non ci sono che situazioni, senza capo né coda; senza inizio, senza metà e senza fine; senza diritto e senza rovescio; si possono guardare in tutti i sensi; la destra diventa la sinistra; senza limiti di passato o di avvenire, esse sono il presente (Jean Epstein).

Ma non è soltanto la rappresentazione immersiva e antididascalica a fare di Leviathan qualcosa che va ben oltre il semplice documentario illustrativo: la disseminazione dei punti di vista in prospettive non coordinate tra loro (si va dai particolari a pelo d’acqua sulle bocche di scarico a totali dall’alto del ponte, passando per primissimi piani nella cabina di comando) libera il film dalla prigionia dell’autorialità prestabilita. L’intenzione del testo è quella di distruggere l’intenzione degli autori stessi, sottrarsi alla schiavitù dell’ordine espositivo, imporsi per forza di cose. La costellazione di GoPro si rivela particolarmente adatta a dare lo stesso “peso ontologico” (parole di Véréna Paravel) a tutti gli elementi in gioco: moltiplicando le fonti di visione e condividendole collettivamente, il film sembra farsi da solo, al riparo da ipoteche tematiche e istruzioni pregiudicanti. E se il registro performativo può rievocare la tranciante crudezza di Le sang des bêtes (1949) di Georges Franju, gli abbaglianti agguati della bellezza (come il luccichio delle conchiglie riversate sul ponte) stabiliscono un dialogo con l’argenteo lirismo di Finis Terrae (1929) di Jean Epstein. Eppure non vi è mai poesia posticcia o conclamata: Leviathan sviluppa una concatenazione di tipo concreto-astratto-concreto. In virtù della durata dei piani, il momento della trasfigurazione si produce spontaneamente tra i contrafforti della concretezza più stringente: non c’è spazio per appiccicargli addosso simbolismi estorti per estenuazione. È il caso a lavorare per noi, a sollevarci dall’obbligo di elucubrare. Che sia lui l’autentico Leviatano?

L’artista è ridotto a far scattare una molla. E la sua stessa intenzione si smaglia davanti al caso. Armonia di ingranaggi satelliti, ecco il temperamento. E anche la natura è un’altra. Quest’occhio vede, pensateci, delle onde che per noi sono impercettibili (Jean Epstein).

Recensione già pubblicata su www.spietati.it.