venerdì 24 febbraio 2012

Confessioni di un cuoco eretico

David Madsen, Confessioni di un cuoco eretico (Confessions of a Flesh-Eater, 1997) Meridiano zero, 2006, pp.216, € 14,00

Orlando Crispe, altrimenti noto come Maestro Orlando, è uno chef di straordinario talento. O meglio un demiurgo che utilizza l’arte culinaria per tramutare in prodigiose pietanze la carne, materia prima delle sue pratiche alchemico-gastronomiche. A capo di un ristorante romano chiamato Il giardino dei piaceri, il Maestro si trova nel carcere di Regina Coeli accusato di omicidio plurimo e sottoposto a periodiche visite psichiatriche. Qui, nella sua piccola cella e munito del necessario per scrivere, redige la storia della sua vita, dai primi morsi dell’infanzia londinese agli esclusivi banchetti romani, passando per l’apprendistato nelle cucine dell’hotel Fuller di Trowbridge sotto le amorevoli cure del mentore Egbert Swayne.


Tradotto in modo semplicemente spettacolare da Francesco Francis, Confessioni di un cuoco eretico (per una volta il titolo italiano suona addirittura più pertinente e suggestivo dell’originale Confessions of a Flesh-Eater) racconta in prima persona la singolare vicenda di uno chef britannico che, in barba al luogo comune della scarsa propensione alla cucina dei sudditi della regina, fa della pratica gastronomica un credo e una ragione di vita, una missione e una metafisica. Perché Orlando Crispe non è soltanto uno chef di indubbio talento, ma un sacerdote della carne, un eretico che ha scelto (giacché l’etimo di eresia significa esattamente “scelta”) la carne a materia di elezione: “‘Carne’ è forse il termine giusto per rappresentare compiutamente l’oggetto del mio desiderio, perché comprende sia la carne cruda e vivente dei corpi, che la carne come alimento. È in questi due sensi che la carne mi ossessiona (…). Il mio amore è la carne in tutta la sua ampiezza di significato; la carne cucinata è solo ciò che un corpo diventa dopo che su di esso ho prodigato il mio genio culinario”. Ebbene, si tratta di una bramosia innata e palesatasi in modo tanto precoce quanto sensazionale quando, attaccato al seno della adorata madre, il poppante Orlando tentò di strapparle un pezzo di mammella con un morso.
Più che una mania genericamente intesa quella del Maestro Crispe è una vocazione, un’Alta Chiamata ad amministrare i sacramenti dell’arte culinaria: “la carne è, dunque, la materia prima del mio genio creativo. L’ho scelta – o meglio, è stata lei a scegliere me – così come un pittore potrebbe scegliere gli acquerelli piuttosto che i colori a olio, o un compositore potrebbe scegliere di specializzarsi nell’opera lirica”. Irresistibile connubio tra il Tristram Shandy di Sterne e il Raskolnikov di Delitto e castigo, il protagonista del romanzo di David Madsen (nom de plume di un docente universitario inglese affascinato dallo gnosticismo) consegna vita e opinioni a uno scritto confessionale dal duplice scopo: dire tutta la verità al di là di ogni indulgenza autoassolutoria (“Il vero genio, come certo sapete, non deve mai giustificarsi”) ed esporre compiutamente i fondamenti della sua filosofia. Una teoria rivelatasi in seguito a una caduta con conseguente botta in testa che porta il nome di fagocitazionismo: una sorta di determinismo carnivoro che divide gli esseri in due specie in competizione per la sopravvivenza, i sottomessi e i fagocitanti. I primi destinati a soccombere, i secondi a divorare. Al di sopra, la preziosa razza dei fagocitanti creativi: quelli dotati di un genio così smisurato da “trasformare la loro consapevole partecipazione al disegno della natura in arte rara e sublime”. Nella cerchia degli eletti, ça va sans dire, Orlando stesso.
Nel traumatico sistema speculativo elaborato dal Maestro, i fagocitanti creativi, diventando tutt’uno con la materia utilizzata, compiono un incomparabile atto d’amore infiammato dalla scintilla della conoscenza: “Il più squisito, elettrizzante degli orgasmi sessuali, credetemi, non può neppur lontanamente paragonarsi all’estasi della comunione raggiunta con la degustazione; la dolcezza di quest’ultima non deriva dagli spasmi di lubrificati orifizi, ma dalla conoscenza. Ed è precisamente nella conoscenza dei processi che si attivano, nella gnosis, che risiede la vera gioia”. Ma oltre a dotare la sua tecnica culinaria di un apparato filosofico al vertice del quale risiede il Divino Fagocitante, Orlando getta nuova luce sull’espressione “la materia risponde sempre all’umore dell’artista”. Un precetto coltivato fin dall’apprendistato come panificatore nelle cucine del mentore Egbert Swayne, ma germogliato prima in influsso incontrollabile e finalmente sbocciato in vero e proprio estro manipolatorio grazie all’inconsueto ma efficace espediente di cucinare piatti a base di carne umana : “Una volta impadronitomi del principio che le vibrazioni psichiche possono essere infuse in – e catturate da – un particolare piatto, e che inoltre quelle vibrazioni possono essere trasferite così a chi lo consuma, mi misi al lavoro di buona lena, creando capolavori di inventiva che non solo sorprendevano e deliziavano i miei clienti, ma trasformavano oggettivamente il loro stato d’animo, il loro umore, le loro condizioni psichiche”.
Ciononostante Confessioni di un cuoco eretico non si limita a vellicare lo spirito del lettore con arguzie esilaranti e situazioni sardonicamente sferzanti (come quella di un neonazista sadomaso sculacciato a sangue con una spatola d’acciaio usata a mo’ di frustino), ma scompagina il dettato narrativo intervallando l’esposizione delle confessioni con frammenti letterari eterogenei (recensioni gastronomiche, ricette di cucina, rapporti sanitari redatti dallo psichiatra del carcere) senza tuttavia snaturare o intaccare la robusta soggettività dell’impianto discorsivo. La scrittura? Eburnea e al tempo stesso intemperante: se il registro stilistico sbalordisce per le repentine escursioni (si va dal turpiloquio più triviale alla prosa edonisticamente ricercata), l’esuberante impasto lessicale regala gioie di sterminata ampiezza (Geldmutter, camarilla, giulebboso, dulìa, icore, inconsutile ed eufuistico sono solo alcuni dei preziosismi linguistici del sontuoso arazzo linguistico). Infine, quasi di soppiatto, balugina la capacità di sintetizzare in frasi trancianti o in fugaci incisi le ombreggiature psicologiche dei personaggi (“Gli occhi cisposi, nerissimi nelle occhiaie rosse e devastate, scintillavano di aperta aspettativa”). E c’è addirittura spazio per Jean Cocteau in carne, ossa e naso (propaggine anatomica la cui abnormità conduce di nuovo a Sterne) nonché per i suoi Enfants terribles, trasformati per l’occasione in inafferrabili gemelli. Un romanzo così maliziosamente, inconfondibilmente sterniano da poter essere ribattezzato The Life and Opinions of Orlando Crispe, Chef.

martedì 7 febbraio 2012

POLISSE

Parigi. L’attività, le operazioni e gli scazzi giornalieri della BPM, Brigade de protection des mineurs, squadra composta da dieci elementi: il comandante Gérard detto Balloo, i tenenti Nadine e Iris e, a seguire, gli agenti Fred, Mathieu, Chrys, Sue Ellen, Nora, Gabriel e Bamako. Tutti sotto l’autorità del funzionario Beauchard, responsabile delle varie sezioni operative. Al gruppo viene provvisoriamente aggregata Melissa Zaia, fotografa incaricata dal Ministero dell’Interno di preparare un libro fotografico sull’attività della polizia. Legata sentimentalmente a Francesco, dal quale ha avuto due figlie, Melissa stringe una relazione con Fred, finendo per preferirlo al più ricco e influente compagno.



Scovate pure tutti i limiti che volete in Polisse (melodrammaticità, faciloneria, equilibrismo narrativo), ma di fronte alla trascinante vitalità sprigionata dal terzo lungometraggio di Maïwenn Le Besco appaiono inezie che solo un malinteso senso del rigore potrebbe scambiare per espedienti coercitivi o formule ammiccanti. Qui si tratta di ben altra cosa, ovvero della capacità esclusivamente francese di scrutare la realtà di tutti i giorni con sguardo frontale e incisivo senza lasciarsi condizionare da schemi precostituiti o logiche commerciali (come invece accade ad Acab, ‘fiction potenziata’ che, secondo l’opinabile e non trasferibile gusto di chi scrive, testimonia la riluttanza del cinema nostrano a sbarazzarsi del manicheismo paratelevisivo). Ne è riprova il metodo di lavorazione seguito dalla trentacinquenne cineasta nata nella banlieue parigina: lungo periodo di internato negli uffici della BPM (Brigade de protection des mineurs), massiccia raccolta di materiale osservato o riferito dai flic della “brigade des biberons” (lo sprezzante nomignolo col quale le altre sezioni della polizia chiamano la BPM) e stesura di un primo e magmatico abbozzo di sceneggiatura (successivamente rielaborata e disciplinata grazie all’apporto di Emmanuelle Bercot). Un apprendistato sul campo che pur in misura meno radicale ha coinvolto l’intero cast, sottoposto a uno stage concentrato in una settimana con due ex poliziotti della BPM. Obiettivo: approfondire la conoscenza delle tecniche della brigata e cementare il gruppo.

Polar d’autore che prosegue idealmente la linea Police (Maurice Pialat, 1985)-L.627 (Bertrand Tavernier, 1992)-Le petit lieutenant (Xavier Beauvois, 2005), Polisse si ricollega fin dal titolo alla quasi omonima pellicola di Pialat, di cui riproduce in scala minore la sintesi tra cronachismo e romanticismo, graffiando il realismo quotidiano con brucianti frizioni sentimentali. Ma a differenza dei film geneticamente affini, il polar di Maïwenn presenta due rimarchevoli differenze. La prima consiste nel microcosmo rappresentato: non più commissariati di quartiere, flic della “Stup” (la brigata stupefacenti) o della “Crim” (la brigata criminale), ma una squadra snobbata dalle altre unità e considerata di minore importanza nell’assegnazione di mezzi e risorse (e questa condizione penalizzante si presenta a più riprese nel corso del film, specialmente nelle dispute tra Balloo, il comandante della BPM, e il funzionario Beauchard). La seconda risiede nell’ottica adottata, nel cosiddetto punto di vista: non più un’angolazione feroce, semidocumentaristica o lacerante come quella di Pialat, Tavernier e Beauvois, ma uno sguardo esplorativo affidato all’azione simultanea di due (all’occorrenza tre) camere digitali. Maïwenn ha dato ai tre operatori Pierre Aïm (anche direttore della fotografia), Claire Mathon e Jowan Le Besco (fratello minore della regista) completa libertà di movimento astenendosi dal dirigerli canonicamente, ma pretendendo in cambio un approccio istintivo, reattivo. Catturare i lampi di verità sul set: ecco l’unica esigenza di messa in scena condivisa da questa insolita cellula cineasta-operatori.

Accordata agli interpreti la facoltà d’improvvisare sulla base di una sceneggiatura accuratamente strutturata (la collaborazione con Emmanuelle Bercot ha riguardato soprattutto il consolidamento dello script), Maïwenn ha girato un’enorme quantità di materiale (circa 150 ore) che ha impegnato tre diversi montatori per più mesi, producendo un primo assemblaggio di 200’ ridotto per sottrazioni progressive al minutaggio definitivo (127’). Un processo all’insegna dell’impetuosità controllata che traspare chiaramente nell’impaginazione narrativa: le operazioni della BPM sono presentate in una serie di pannelli che introducono i bambini oggetto di abusi o con problemi di sopravvivenza/sussistenza e, contestualmente o poco dopo, gli adulti che di quegli abusi e violenze sono responsabili più o meno pentiti (quasi tutti tendono a minimizzare). Ma, più ampiamente, a guidare la narrazione non vi è una vera e propria linea portante, bensì una continua carambola tra interrogatori in centrale, frammenti di conversazioni domestiche, operazioni sul territorio e pause occasionali in cui si precisano le dinamiche di gruppo. Pubblico e privato si intrecciano indissolubilmente, l’attività professionale riverbera su quella affettiva, i confini tra intimità e ruoli sociali si incrinano: ne esce un potente affresco che da una parte raffigura il carattere trasversale, interclassista della violenza sui minori e dall’altra tratteggia caratteri sfumati, a più dimensioni, lontani tanto dall’eroismo esemplare quanto dall’invulnerabilità psicologica e fisica.

Film corale, stilisticamente impulsivo e narrativamente rapsodico, Polisse è infine impreziosito da un cast che vede riuniti alcuni tra i migliori interpreti del cinema francese contemporaneo: Frédéric Pierrot nei panni di Balloo e Carole Franck in quelli della moglie Céline; Karine Viard nel ruolo di Nadine e Marina Foïs in quello dell’amica-nemica Iris; Karole Rocher nella parte di Chrys e Nicolas Duvauchelle in quella di Mathieu. Una batteria d’attori completata da Naidra Ayadi (Nora), Emanuelle Bercot (Sue Ellen) e dalla stessa Maïwenn nelle vesti della fotografa Melissa, autentico auctor in fabula che incassa in silenzio, facendo da scudo al film per interposto personaggio, le rituali accuse di miserabilismo e pietismo indirizzatele da Fred (il rapper-attore di origine martinicana Didier Morville aka Joeystarr, attuale compagno della regista-attrice). Proteste palesemente gratuite e ingiustficate, in realtà alimentate da un interesse che sfocerà inrelazione sentimentale. Del resto se il registro dominante è a tinte drammatiche, non scarseggiano affatto pennellate distensive o sprazzi di ilarità collettiva che scaturiscono sia dalla necessità di esorcizzare l’orrore quotidiano con l’umorismo sia dal desiderio di condividere i rari momenti di gioia, come avviene durante la serata in discoteca per lo scampato pericolo di un bambino uscito dal coma. Sulle note di Stand on the Word dei Keedz, Fred apre le danze seguito a ruota da Balloo, la “Brigade des biberons” si sbraccia in una coreografia estemporanea e Sue Ellen si lancia in una lap dance da ovazione. Contagiate dall’euforia, persino le inquadrature si mettono a ballare. Presentato in concorso al 64º Festival di Cannes, Polisse si è aggiudicato il premio della Giuria. Strameritato.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.