mercoledì 12 aprile 2017

LOVING

"Ispirato a una storia vera, Loving rende omaggio al coraggio e all'impegno di una coppia mista, Richard e Mildred Loving, innamorati e sposati nel 1958. La coppia è originaria di Central Point, una cittadina della Virginia nella quale le comunità si integrano più facilmente che nel resto del Sud degli Stati Uniti. Eppure è proprio la Virginia, dove la coppia ha deciso di risiedere e fondare una famiglia, che prima li condanna alla prigione e poi all'espulsione. Richard e Mildred si trasferiscono allora coi figli in un modesto quartiere di Washington. Tuttavia, anche se i parenti li accolgono nel migliore dei modi, l'ambiente urbano non li fa sentire a casa. Spinta dall'imperioso bisogno di abitare nella sua regione natale, Mildred trova infine il modo di tornare in Virginia. Il loro caso giudiziario relativo ai diritti civili, "Loving contro Virginia", finisce per essere giudicato dalla Corte Suprema che, nel 1967, riafferma il diritto fondamentale del matrimonio. Richard e Mildred tornano a casa e la loro storia d'amore è divenuta, a partire da questa epoca, un modello agli occhi di numerose coppie" (dal pressbook). 


Largamente ispirato al documentario HBO del 2011 di Nancy Buirski The Loving Story, Loving racchiude in sé tutti i pregi e i limiti del cinema di Jeff Nichols. Laconicità drammaturgica, padronanza della narrazione in atti distinti, controllata scansione della temporalità e, soprattutto, compenetrazione tra vicende rappresentate e circostanze ambientali: questi punti di forza del suo cinema confluiscono limpidamente in Loving, film che fa del radicamento in un'epoca determinata (la storia si svolge tra la fine degli anni '50 e gli anni '60) e in luoghi ben definiti (la Virginia, Washington) la propria ragione d'essere. Il radicamento nel territorio rappresenta difatti l'asse portante del quinto lungometraggio di Nichols, dal momento che i due protagonisti di Loving (Ruth Negga/Mildred Loving e Joel Edgerton/Richard Loving) sono entrambi forgiati e motivati dalla natura in cui sono vissuti - è lo stesso Nichols a dichiararlo in un'intervista rilasciata a Michel Ciment e Yann Tobin e pubblicata su Positif: "Penso che se si parla di natura, Loving è il film più apertamente rivolto verso di essa. È certamente centrale nei miei film, poiché, secondo me, forma i personaggi che vi hanno vissuto. Ciò che voi siete è là dove avete vissuto". È d'altronde il desiderio nutrito da Mildred di tornare in Virginia a costituire l'autentica motivazione della richiesta di aiuto a Robert Kennedy e, successivamente, dell'approvazione della battaglia condotta dall'Unione Americana per le Libertà Civili, rappresentata dal binomio legale Bernie Cohen (Nick Kroll) e Phil Hirschkop (Jon Bass).

Eppure, nonostante questa compenetrazione tra personaggi e spazio che sembrerebbe suggerire un'apertura della narrazione alle suggestioni ambientali, Loving è un film chiuso. Chiuso in un involucro spaziotemporale e in una meticolosità filologica (si veda il documentario di Nancy Buirski e si prenda atto che Nichols ha girato svariate sequenze nei luoghi originali della vicenda) che, paradossalmente, stabiliscono un dialogo ininterrotto col presente attraverso una domanda implicita che serpeggia costantemente nella coscienza dello spettatore: "al di là della cruciale questione giuridica, le cose sono veramente cambiate?". Detto altrimenti, è proprio in virtù della distanza storica ed estetica esibita dal film che la relazione con la contemporaneità diventa effettiva e stringente. Ma, secondo paradosso, questa comunicazione a distanza è ottenuta al prezzo di una riduzione degli individui messi in scena a organismi vegetali, piante che, sradicate dal territorio di origine, deperiscono e rischiano la morte (il piccolo Donald investito da una macchina nella rumorosa e minacciosa Washington). Una concezione vegetale dell'essere umano probabilmente più retriva, tradizionalista e immobilista della legge segregazionista sconfitta dai coniugi Loving e compagnia civile. La contraddizione tra progresso sociale e regresso vegetale non potrebbe essere più stridente e sconcertante.

Ed è alla luce di questo cortocircuito tra impianto politico libertario e imprigionante radicamento intimistico (ancora una volta il pubblico smentisce e mistifica il privato) che Loving evidenzia l'involuzione umanistica del cinema di Jeff Nichols a partire da Mud (2012). Un'involuzione che ha tutti i tratti dell'edulcorazione rassicurante: la paranoia dilagante di Take Shelter (2011) si è andata diluendo in un umanismo consolatorio ancora intralciato da grumi genuinamente scorretti e non completamente addomesticati (ma non bastano le ipoteche di arrivismo che gravano sull'avvocato rampante Bernie Cohen o le allusioni alla rapacità mediatica per il caso costituzionale a riscattare Loving dalla parabola agiografica). E se Midnight Special (2016), il più bello tra gli ultimi tre film del trentottenne regista dell'Arkansas, conservava comunque una sua oscura carica nomade e disturbante, Loving segna un ulteriore passo verso il paradiso artificiale del cinema edificante. Un paradiso sempre più simile a una serra.

Già pubblicata su www.spietati.it.

domenica 2 aprile 2017

JACKIE

 





"Quando il Presidente Kennedy venne assassinato, la First Lady Jacqueline Kennedy dovette tirar fuori tutto il suo coraggio per superare il dolore e lo choc e ritrovare la fede, consolare i figli e forgiare l'eredità storica del marito" (dal pressbook),








E così veniamo avanti
simili in tutto a quelli di ieri
aggrappati a un'immagine
condannata a descriverci
Dimmi, non è così?


Massimo volume, Le nostre ore contate

 

 

Voglio essere il tuo specchio

 

Chiuso il cerchio morbosamente penitenziale di Il club, è stata la volta della spirale pomposamente metanarrativa di Neruda, film in cui i contorcimenti metadiscorsivi stritolavano ogni possibilità di identificazione dello spettatore e boicottavano qualsiasi ipotesi di definizione univoca del protagonista. L'insegna al neon che sovrastava Neruda, insomma, non faceva che saettare questa sentenza: "La verità è un gioco di specchi". Un trito dogma modernista attorno al quale il film intesseva una bulimica variazione stilistica, finendo per rimanerne schiacciato. Resta il fatto che, pur soffocato dal suo stesso assunto, Neruda ruotava intorno all'idea di verità in quanto riflesso inafferrabile e inarrestabile.

Ebbene, è esattamente la stessa idea di verità come fuga di specchi a muovere e agitare Jackie. Presentato in concorso a Venezia 2016, il settimo lungometraggio cinematografico di Pablo Larraín si sviluppa secondo tre linee ricostruttive che s'intersecano, disegnando un ritratto femminile incorniciato dall'ossessione dell'identità riflessa sia dal punto di vista biografico (Jackie come Mrs. John F. Kennedy) sia da quello puramente grafico (Jacqueline come volto posto quasi ininterrottamente di fronte a superfici riflettenti).

1- L'intervista rilasciata a Theodore H. White (Billy Crudup) pochi giorni dopo l'omicidio del marito e pubblicata su LIFE il 6 dicembre 1963 col titolo An Epilogue.
2 - Il programma televisivo A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy trasmesso sia dalla CBS che dalla NBC il 14 febbraio 1962 (nonché dalla ABC quattro giorni dopo).
3 - Il colloquio, successivo all'intervista, col padre gesuita Richard McSorley (John Hurt) avvenuto nel 1964.

In queste tre situazioni di discorso soggettivo e rappresentazione di sé, Jacqueline Kennedy (Natalie Portman) è mostrata secondo tre angolazioni diverse e complementari: apertamente pubblica nel frangente televisivo (si tratta di esibire ufficialmente i lavori di riqualificazione della Casa Bianca), in bilico tra pubblica e privata durante l'intervista (l'intento di onorare e preservare l'eredità ideale lasciata dal marito si alterna a momenti di fugace abbandono e improvvisa fragilità), squisitamente confidenziale e privata in occasione del dialogo col sacerdote gesuita (qui Jackie confessa a McSorley i suoi pensieri più oscuri e autodistruttivi).


Immagine perfetta, sensazione perfetta

 

Ovviamente è nel pannello sacerdotale che la questione della verità si fa più cocente e dolorosa. Sollecitata dal reverendo McSorley ("God isn't interested in stories. He's interested in the truth", le dice il padre gesuita), Jackie si mostra finalmente disposta a ricordare e riferire gli istanti più drammatici dell'assassinio di John a Dallas: "I told everyone that I can't remember. It's not true. I can remember. I can remember everything", confessa al sacerdote immediatamente prima che ci vengano sciorinati gli highlights più tragici e sanguinosi dell'omicidio. Ma, di fatto, l'interrogazione sulla verità percorre l'intero film, fin dai primi scambi tra Jackie e Theodore H. White. In una delle prime frasi rivolte al giornalista, la vedova Kennedy formula sarcasticamente questa domanda: "The more I read, the more I wonder... When something is written down, does that make it true?". E se White, qualche minuto dopo, risponde alle punzecchiature della diffidente Jackie proclamandosi cercatore di verità da bravo reporter ("I’m just trying to get to the truth. That’s what reporters do"), lei replica altezzosamente, liquidando in scioltezza questa ingenua pretesa e dicendosi perfettamente consapevole del grande divario che esiste tra ciò che la gente crede e ciò che lei sa essere reale ("Oh, the truth. Well, I've grown accustomed to a great divide between what people believe and what I know to be real").

Perché per Jackie, e qui sta il vero nodo problematico del film, la verità risiede nell'immagine. È per questo motivo che, fin dalle prime battute, la rappresentazione televisiva viene da lei proposta sbrigativamente come il superamento dell'arbitrarietà insita nella scrittura: "We have television now. At least people can see for their own eyes". Per Jackie vedere coi propri occhi equivale a conoscere la verità. Non è per capriccio che esige il controllo sulla versione definitiva dell'intervista: "You understand that I will be editing this conversation? Just in case I don't say exactly what I mean", sibila seccamente all'interdetto White ancor prima di farlo entrare in casa. Per lei la parola scritta costituisce un insidioso strumento di manipolazione e, al tempo stesso, un potentissimo dispositivo di mitizzazione: "I believe that the characters we read about on the page end up being more real than the men who stand beside us", confesserà al sacerdote gesuita in una delle sue ultime battute. E non è mera vanità quella che spinge la giovane First Lady a spalancare le porte della Casa Bianca alle telecamere per mostrare agli occhi dei telespettatori americani ("I didn’t do that program for me. I did it for the American people") i lavori di personalizzazione di quella che nel programma verrà ribattezzata "The People’s House": Jackie è davvero convinta che per mezzo dell'immagine televisiva si possa toccare la verità con gli occhi, eludendo le storture diffamanti o magnificanti della scrittura. Ed è questa stessa convinzione circa le proprietà manipolatorie della scrittura che la porterà a "camelotizzare", proiettandola in un reame fatato, l’eredità ideale lasciata dal marito: "Maybe that's what they'll all believe now. Camelot. People like to believe in fairy tales", replicherà alla domanda di padre McSorley se la pubblicazione dell'intervista l'abbia aiutata a guarire. Se l'immagine registra la verità, la scrittura, per Jackie, sta sempre un gradino sotto o sopra la percezione della realtà.


Questa è la tua faccia, dice

 

Naturalmente il film, e in ciò dovrebbe risiedere la sua modernità, si premura di erodere questa fiducia sconsiderata nell'immagine, mostrandoci la "dipendenza iconica" di Jackie in modo quasi caricaturale: dalla già menzionata visita guidata nella Casa Bianca (il primo tour televisivo in assoluto nella residenza presidenziale) al desiderio gloriosamente lugubre confessato a McSorley di essere abbattuta davanti alle telecamere durante la processione funebre allestita per il marito ("In front of the whole world? Famous life, famous death", commenta acutamente il padre gesuita), passando per la priorità assegnata agli oggetti e agli artefatti sulle persone in carne e ossa ("Objects and artifacts last far longer than people, and they represent important ideas in history, identity, beauty", asserisce Jackie nell'intervista, con aria sognante, a un sempre più interdetto White) e, soprattutto, per la deliberata ostensione televisiva dei due orfani Kennedy in occasione del trasferimento ufficiale del feretro al Campidoglio (alla ragionevole ritrosia della devota segretaria Nancy Tuckerman/Greta Gerwig "But the cameras. Those pictures are being broadcast to every corner of the world", Jackie replica categoricamente "Those pictures should record the truth. Two heartbroken, fatherless children are part of that").

Ma il tratto più impressionante di questa erosione iconica si concretizza nella miriade di specchi e superfici riflettenti che accerchiano e guatano Jackie, incorniciandola visivamente senza darle un attimo di tregua. Jackie davanti allo specchio nell'Air Force One (il celebre SAM 26000 creato appositamente per John F. Kennedy) prima del bagno di folla a Dallas; Jackie allo stesso specchio mentre si toglie, gli occhi bagnati di lacrime, le macchie di sangue dal volto dopo l'omicidio del marito; Jackie imprigionata in una fuga di specchi quando, nel suo bagno alla Casa Bianca, si spazzola freneticamente le unghie per rimuovere le incrostazioni ematiche; Jackie di fronte allo specchio nella camera presidenziale mentre indossa i gioielli e si trucca per rivivere idealmente, in passeggiate solitarie sulle note del musical Camelot, l'incanto della dolce era perduta; Jackie allo specchio mentre prova il velo funebre circondata dalle premurose attenzioni della fedele Nancy; Jackie inquadrata attraverso il finestrino dell'auto su cui si riflettono le sagome e i volti della folla durante il trasferimento del feretro al Campidoglio: tutti momenti nei quali è confrontata con la propria immagine speculare, posta di fronte a un'icona che rappresenta totalmente la sua identità e alla quale ha consacrato l'intera esistenza. Per lei, insomma, essere all'altezza di quell'immagine non è questione di vanità, è semplicemente questione di sopravvivenza.

Se l'immagine televisiva, come osservato in precedenza, certifica la verità sottraendola alle storture della scrittura, per Jackie l'immagine speculare svolge parallelamente la funzione di incorniciatura narcisistica. Detto altrimenti, lo specchio le restituisce una tangibile proiezione immaginaria: un Io ideale che fa letteralmente corpo con la sua immagine riflessa e la inchioda a un'identità puramente iconica. Venuto meno il sostegno narcisistico veicolato dal marito (dico "veicolato" perché in realtà, per la First Lady, l'autentica figura del Grande Altro è rappresentata da Lincoln, di cui John F. Kennedy non costituisce che un avatar mortale), a Jackie non resta che questo Io ideale a cui aggrapparsi per non precipitare nel vuoto informe dell'inconsistenza melanconica. E l'apoteosi di questa dipendenza dall'immagine speculare è raggiunta quando, inscatolati i suo averi e quelli dei figli in vista del trasloco imminente dalla Casa Bianca, Jackie ingoia l'ennesima pillola e si guarda allo specchio: è come sorpresa dalla propria immagine, è come se quella presenza la stesse spiando. La camera a mano che la riprende di profilo destro si allontana da lei e, con una soggettiva libera indiretta in cui la visione del regista si impregna della sensibilità della protagonista, sposa la traiettoria del suo sguardo, inquadrando il suo volto incorniciato dallo specchio e mettendolo progressivamente a fuoco.

Ridicolizzata poco prima dal cognato Bobby (Peter Sarsgaard) e guatata dalla propria immagine speculare, Jackie si sente obbligata a cambiare idea e imporre la processione all'aperto dal Campidoglio alla cattedrale di St. Matthew precedentemente annullata per motivi di sicurezza. Messa alle strette dall'Io ideale che l'ha appena scrutata definendosi visivamente, Jackie deve essere di nuovo all'altezza di quella immagine: il corteo funebre avrà luogo e lei camminerà dietro alla bara del marito fino alla cattedrale, nonostante le resistenze dell'entourage del neopresidente Lyndon Johnson ("I've changed my mind. We will have a procession, and I will walk to the Cathedral with the casket", informa con olimpica sicurezza il recalcitrante Jack Valenti/Max Casella). Detto più semplicemente, è stata la sua immagine speculare a farle cambiare idea, ricordandole che lei è Jackie: non una povera vedova affranta e remissiva, ma un'icona regale e combattiva. Si noti, di passata, il parallelismo tra l'espressione meravigliosamente perplessa che Jackie nota sul volto del marito morente ("He had the most wonderful expression on his face, you know? Just before they'd ask him a question, just before he'd answer, he looked puzzled", dice a White durante l'intervista) e quella altrettanto esitante dell'immagine che la sta fissando: è in questo preciso frangente, per mediazione della perplessità, che avviene la coalescenza tra il supporto narcisistico rappresentato fino a quel momento dall'immagine di John/Jack e il riflesso speculare di Jackie stessa. Lo stato d'animo indovinato in punto di morte sul volto del marito si riaffaccia a distanza sullo specchio, investendo Jackie con autorità categorica: si tratta di un'imperiosa saldatura narcisistica assimilabile a un enunciato performativo che enfatizza le sue capacità di prestazione, rigonfiando inaspettatamente il suo Io immaginario: "Questa è la tua faccia, dice".


Sospesa tra questo corpo e la scena

 

Se a questi tratti caricaturali che definiscono la dipendenza di Jackie dall'immagine aggiungiamo la sua ansia espositiva (la predilezione per le folle, il desiderio di manifesti con la faccia di John affissi ovunque, la determinazione megalomanica di riprodurre la magnificenza della cerimonia funebre di Lincoln) e il suo timore per le ripercussioni dell'autopsia sull'integrità visiva del marito ("Make sure they make him look like himself", mormora terrorizzata al cognato Bobby), l'intensità della sua iconofilia raggiunge livelli francamente ossessivi. Un'ossessione per la propria immagine - e per quella del marito come protesi narcisistica - che si presta a una doppia lettura: storica e contemporanea. Nel primo caso si delinea il ritratto di una donna che reca impressi i lineamenti culturali dei primi anni '60, ossia l'impronta di quella civiltà dell'immagine di cui si occupavano e preoccupavano proprio in quegli anni sociologi, teorici della comunicazione e protosemiologi. Jackie come donna del suo tempo, insomma, assoggettata all'etichetta e ai codici iconici che determinavano il protocollo comportamentale dell'alienazione integrata (ricordiamo scolasticamente che Apocalittici e integrati di Umberto Eco è del 1964).

Nel secondo caso, con un salto mortale che ci catapulta nella contemporaneità, si configura al contrario il ritratto di una figura femminile che assembla la propria esistenza affastellando immagini di invidiabile classe ed eleganza, proponendosi come icona di stile. Immagini social, in una parola. Che cosa suggerisce infatti, allo spettatore contemporaneo, quel formato orizzontale dell'immagine speculare che costringe Jackie a essere all'altezza della propria rappresentazione se non un'immagine di copertina? Dall'immagine da copertina per le riviste degli anni '60 e programmi televisivi vincitori di Emmy (A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy valse alla First Lady il prestigioso riconoscimento) all'immagine di copertina/profilo dei mezzi di autorappresentazione contemporanea (Facebook, Instagram, Pinterest, Tumblr e via postando) il salto è discontinuo e azzardato, certo, eppure è proprio in questo balzo spericolato che, secondo chi scrive, è dato indovinare lo straripamento nell'ossessione visiva che contraddistingue la costruzione dell'identità odierna. Una spericolatezza che, tuttavia, precipita nell'ovvietà di una constatazione lapalissiana.

Jackie, dunque, non è soltanto ossessionata dal controllo della propria immagine, ma, secondo una dinamica più insidiosa e perversa, è controllata ossessivamente dalla propria immagine, in un circuito chiuso di rappresentazione iconica condannata a descriverla. Il processo erosivo nei confronti di questo circolo vizioso si conclude emblematicamente nel prefinale quando, abbandonata la Casa Bianca e seppelliti i due figli ad Arlington accanto al marito, Jackie vede dalla limousine alcuni manichini a sua immagine e somiglianza nelle vetrine della città e altri scaricati da un camion per essere esposti: la reificazione iconica ha completato il suo percorso, trasformandola in vero e proprio oggetto di consumo visivo, simulacro mercificato, fantoccio da esposizione. E così il mosaico di sintomi paranoici, nevrotici e narcisistici che compone il ritratto di Jackie sbozzato da Larraín sulla sceneggiatura di Noah Oppenheim rimbalza sull'iconofilia contemporanea per interposta bacheca, finendo per mostrarci tautologicamente la nostra dipendenza dall'immagine nella costruzione inesausta della nostra identità social.

A questo invero logoro motivo di riflessione si congiunge, infine, un altro elemento di non straordinaria originalità, quello dell'ineludibilità consolatoria della dimensione narrativa. La favola leggendaria recuperata da Jackie per mitizzare idealmente l'era Kennedy, difatti, si delinea in modo sempre più evidente come una costruzione di fantasia necessaria a incapsulare il nucleo traumatico realmente vissuto. Senza armatura narrativa il reale si presenterebbe a Jackie come un vuoto letteralmente insopportabile, donde la necessità di compensare e rivestire questo vuoto con una fabula che ne smorzi il potenziale distruttivo e disgregativo, trasfigurandolo in racconto mitologico ("Don't let it be forgot/That once there was a spot/For one brief, shining moment/That was known as Camelot", recita il refrain del brano tanto amato dal compianto marito). Dal vuoto reale della morte alla pienezza consolatoria del mito favoloso, passando per la vischiosità dell'ossessione iconica: ecco la parabola tracciata con limpido rigore disegnativo da Larraín. Messa in scena che nevrotizza, aggiornandoli, i parametri stilistici della regia televisiva americana anni '60 (l'impressione di trovarsi in una sorta di TV show impazzito è suscitata dalla frontalità, dalla secchezza e dalla frammentazione del dettato visivo), commento musicale sinuosamente dissonante di Mica Levi (le riconoscibili frenate sonore della compositrice britannica si aprono gradualmente ad ariose vibrazioni di fiati e archi) e interpretazione di necrofilo mimetismo di Natalie Portman, che nell'epilogo stringe guantata il suo John/Jack, danzando beatamente tra le sue braccia, quelle di un cadavere squisito. Continuamente sospesa tra questo corpo e la scena.

Già pubblicata su www.spietati.it.

venerdì 31 marzo 2017

AQUARIUS

 


"Clara è un critico musicale e vive in un piccolo palazzo degli anni Quaranta chiamato "Aquarius", che si affaccia sullo splendido lungomare di Recife. Una compagnia immobiliare ha già acquistato tutti gli appartamenti dell'edificio per farne un grattacielo di lusso, ma Clara è decisa a non cedere la casa a cui è legata dai ricordi di una vita. Dopo i primi approcci amichevoli, gli speculatori ingaggiano una vera e propria guerra fredda con la donna, in un crescendo di violenza psicologica: abituata da sempre a combattere, Clara non ha però intenzione di arrendersi, neanche davanti all'ultima, sconvolgente minaccia" (dal pressbook). 




Fortemente ostacolato e al contempo sopravvalutato per motivi di carattere politico (non soltanto per la plateale protesta cannense contro la destituzione di Dilma Rousseff, ma anche per la presenza nel film di tematiche politicamente connotate), Aquarius rappresenta, al di là di questi aspetti concomitanti, il lavoro più emblematico di Kleber Mendonça Filho. Regista con burrascosi trascorsi da critico, Mendonça Filho (classe 1968) ha concepito nel corso del tempo un universo cinematografico che, frequentando varie forme e formati audiovisivi (VHS, Betacam,DV, HD, 35mm) senza stabilire nette divisioni tra loro, ruota immancabilmente attorno alla città brasiliana di Recife. Un microcosmo deliberatamente ingabbiato che, come recita il titolo del primo cortometraggio che lo ha reso voce di rilievo nel panorama brasiliano (Enjaulado, 1997), gravita intorno a ossessioni ricorrenti: l'insicurezza intrisa di paranoia, la diffusione del terrore fin dall'infanzia (A Menina do Algodão, 2003), il regime mutilante delle prescrizioni domestiche (Vinil Verde, 2004), la repressione sessuale (Eletrodoméstica, 2005), le sconcertanti mutazioni ambientali (Recife Frio, 2009), la mania del controllo fomentata dalle disuguaglianze sociali (O Som ao Redor, 2012) e le surreali aberrazioni urbanistiche dettate dalla virulenza delle logiche economiche (A Copa do Mundo no Recife, 2015).

I miei film contengono degli elementi ricorrenti, dei motivi che circolano. Ma a un certo momento ho avuto voglia di uscire da casa mia dove sono stati girati tutti i miei primi film, ivi compreso Vinil Verde che oggi è un classico del cortometraggio brasiliano. Filmare nella strada (Kleber Mendonça Filho).

Ebbene, questo universo accanitamente “recifecentrico” trova in Aquarius il suo coronamento e il suo perno gravitazionale ultimo. Nella figura di Clara (Sonia Braga), donna sessantenne assediata e insidiata da una spregiudicata compagnia immobiliare che intende demolire la sua abitazione per rimpiazzarla con un lussuoso grattacielo, si fondono insieme tre componenti strutturali del cinema di Mendonça Filho: l'analisi particolareggiata di un personaggio cocciuto e tutt'altro che accondiscendente, l'identificazione della protagonista con l'edificio che custodisce la sua storia e, infine, l'inseparabilità del soggetto dal luogo che oggettiva affettivamente la sua esistenza. Difficile non riconoscere in questa triplice alleanza tra individuo, storia e spazio affettivo un autoritratto per interposta Sonia Braga dello stesso Mendonça Filho: ostinatamente aggrappato alla sua città natale, il regista pernambucano rivendica con Aquarius, film radicale se mai ve n'è stato uno, un'indipendenza irriducibile e non negoziabile, incidendo sul corpo della sua protagonista (non a caso critico musicale, proprio come lui è stato critico cinematografico) i segni di un passato tanto vulnerato quanto vittorioso (la guarigione dal cancro al seno che le è costata l'asportazione della mammella destra). In questo senso l'imperfezione estetica si dà a leggere fin troppo facilmente come cicatrice di vitalità e indisponibilità al compromesso: segno di gloria imperfetta che testimonia l'irriducibilità a uniformarsi, anche se questo comporta un minor potere di seduzione (l'episodio dell'uomo che si ritrae subito dopo aver saputo della sua operazione chirurgica). Una donna e un cinema senza plastica e trucchi cosmetici, insomma, ma irriducibilmente personali, combattivi e vitali.

Avevo un tavolo di montaggio VHS a casa mia, con un monitor in bianco e nero. Ho realizzato numerosi video a piccolo budget. Uno di questi tratta della demolizione di una casa: Paz a Esta Casa. Il film è del 1994 e dura un minuto. Conoscevo la famiglia che viveva lì. Il film realizzava una predizione oscura su ciò che poteva succedere a questa casa. La famiglia era assai contrariata. Ma 23 anni più tardi la mia oscura predizione si è avverata. È allora che ho avuto l'idea di Aquarius.

"Doña Clara c'est moi" sembra dunque essere il motto che attraversa in filigrana l'intero film: intervistata da due giovani giornaliste, Clara ostenta nei confronti dei supporti di registrazione e riproduzione musicale (vinili, cassette, MP3, streaming) la stessa apertura e la stessa disinvoltura che hanno contraddistinto la produzione audiovisiva di Mendonça Filho negli anni '90 ("Ho utilizzato più o meno tutti i formati video esistenti negli anni '90: Betacam, Super VFIS, VHS, Super 8, 8 mm video, U-matic"). Secondo lungometraggio cinematografico del regista di Recife dopo O Som ao Redor (Neighboring Sounds, 2012), Aquarius è del resto un film in cui la rappresentazione di sé attraverso segni tangibili e visibili costituisce inequivocabilmente l'elemento dinamico della vicenda: i dischi, i libri, le fotografie e i mobili che costellano l'abitazione di Clara non sono soltanto oggetti di arredo domestico, ma contenitori di storie, "messaggi in bottiglia" (come illustra Clara alla confusa intervistatrice, riferendosi all'album Double Fantasy comprato in un negozio di dischi usati a Porto Alegre). Questi "oggetti speciali" (altra definizione di Clara) sono custodie di memoria, scrigni che racchiudono il passato personale e familiare: si pensi al mobile della settantenne zia Lucia (Thaia Perez), vera e propria macchina del tempo che catapulta il film dal 1980 del prologo ai momenti in cui la stessa Lucia, usandolo come supporto erotico, faceva l'amore col suo amante decenni prima. Ovviamente questo mobile, ormai divenuto emblema di una femminilità attiva e indipendente in virtù delle connotazioni acquisite, non potrà mancare nella casa di Clara.

Inizialmente volevo filmare il caos urbano di Recife: prolungare O Som ao Redor, ma stando meno nell'osservazione e più nell'azione. Cosa succede quando una cosa, benché molto bella, è giudicata inadeguata e superata in una società? […] Succede la stessa cosa sul piano del paesaggio urbano in Aquarius. Verso la fine del film si vede in campo lungo questa donna molto sottile che torna dal droghiere tra edifici immensi. Sembra non avere niente a che fare con la strada, così inospitale per i pedoni.

Ma se Doña Clara è un ritratto di Mendonça Filho per interposta protagonista, essa, come osservato in precedenza, fa anche corpo con l'edificio in cui vive. Anzi, la stessa esistenza di Clara è letteralmente indissociabile dall’Aquarius ("Me ne andrò da qui solo morta!", tuona al giovane imprenditore Diego in uno degli scambi più accesi del film). Pur essendo la sola ad abitare nell'edificio in predicato di demolizione, lei ne incarna la memoria storica (non è fortuito che l'Aquarius abbia sessant'anni, la sua stessa età), ne rappresenta il cuore indomito e la linfa vitale (anche la riverniciatura della facciata da bianca a blu è segno di questa vitalità inesausta): se l'Aquarius costituisce il corpo architettonico di Doña Clara, Doña Clara rappresenta il documento vivente dell'Aquarius. In questa circolazione di identificazioni (Mendonça Filho/Clara/Aquarius) nella quale la rappresentazione esprime e documenta totalmente l'esistenza, l'attacco erosivo sferrato dalla compagnia Bonfim con l'infestazione di termiti riproduce vistosamente nel corpo dell'edificio la patologia cancerosa (la ragnatela di tunnel come diffusione di metastasi) che Clara ha conosciuto sul proprio corpo ("Sono sopravvissuta a un cancro, più di 30 anni fa, sapete? Ultimamente ho riflettuto su una cosa. Preferisco far prendere un cancro a voi, piuttosto che averlo io", sibila Clara prima di rovesciare sul tavolo della compagnia Bonfim le tavole di legno infestate di termiti).

Questo finale opera a più livelli. Può sembrare ottimista o totalmente pessimista. Ma i primi piani finali sono molto inquietanti, lo so bene… Con delle termiti tutti i documenti della vostra vita spariscono. Distruggono tutti i documenti di questa famiglia.

Ma è proprio a causa di questa dimensione di apologo emblematico che, alla luce delle considerazioni precedenti, Aquarius si rinchiude scientemente in un'idea di piacere cinefilo totemico, chiuso su se stesso e autolegittimante, sacrificando l'ambiguità potenziale delle immagini sull'altare dell'evidenza totale (Mendonça Filho: "Il vero piacere cinefilo è quando incontrate il cineasta e vi dite che un'evidenza lo lega al suo film: il film lo esprime totalmente"). In questa idea di film come documento rappresentativo e certificato biografico del cineasta, insomma, il cinema si tramuta in ufficio anagrafe e riserva protetta, habitat cinefilo in cui crogiolarsi in una visione ingabbiata e tre volte riflessa. Tutto è segno in Aquarius, segno che Aquarius è un tutto: un microcosmo a tenuta stagna dal quale non trapela una sola goccia incontrollata. Cullante illusione di consistenza.
Le dichiarazioni di Kleber Mendonça Filho contenute nella recensione sono ricavate e tradotte dall'intervista rilasciata a Élise Domenach pubblicata su "Positif" col titolo Se sentir proche d'un film, c’est une chose très belle (n.668, ottobre 2016, pp. 25-29). 
Ringrazio Luca Pacilio per la segnalazione dell'interessante intervista.

Già pubblicata su www.spietati.it.

sabato 12 novembre 2016

UN CONDANNATO A MORTE È FUGGITO

 


Lione, 1943. Accusato di spionaggio e preparazione di un attentato, il tenente Fontaine è imprigionato in un carcere controllato dalle forze di occupazione tedesca dopo un disperato tentativo di fuga. Condannato alla fucilazione, Fontaine escogita un piano di evasione servendosi dei pochi mezzi che la situazione gli mette a disposizione: un cucchiaio, del fil di ferro, coperte, ganci fabbricati con la cornice della lanterna. E, soprattutto, facendo affidamento sulla sua inflessibile volontà.






Un uomo e una porta

 

 Il reale di cui i film di Bresson recano testimonianza non è deducibile che dalla messa in scena. Che questa percezione sia stata l'oggetto di una ricerca, di un brancolamento che ha condotto a stabilire un sistema singolare, questo è noto e Un condannato a morte è fuggito ne segna senza dubbio la rottura. […] Il Condannato, precisamente, è la prima pellicola di Bresson che utilizza sistematicamente gli elementi - firma se vogliamo - che sono il marchio dei suoi film: frammentazione dello spazio, non-attori, meccanizzazione della recitazione e della dizione…
Philippe Arnaud,"Robert Bresson".

Un film su un uomo e una porta: ecco che cos'è Un condannato a morte e fuggito. In questa porta che separa Fontaine dal primo spiraglio di libertà si materializza il caso inteso come coincidenza e destino: l'accidente e il senso. Per raggiungere la libertà ventilata dall'aria che s'intrufola nella finestra della sua cella ("Il vento soffia dove vuole"), Fontaine deve innanzitutto misurarsi con questa barriera di legno che lo porterà ancora di più all'interno del carcere, nelle sue ignote anfrattuosità ("Il fallait que cette porte s'ouvre, je n'avais rien prévu pour après"; "Occorreva che questa porta si aprisse, non avevo previsto niente per dopo"). Per conquistare l'aria, deve sprofondare nell’orizzonte interno delle cose, spingersi nell'ignoto. Disperato e disilluso ("Non mi facevo alcuna illusione sulla sentenza"), Fontaine deve al caso e all'inoperosità la sua prima intuizione evasiva ("Fu per un caso che riuscii a fare il primo passo verso la libertà"): seduto davanti alla porta, non avendo nient'altro da fare che posarvi lo sguardo, si accorge che l'interstizio tra le tavole di quercia è di un legno diverso, più tenero e intaccabile ("Sicuramente esisteva il modo di smontare la porta"). Inizia così la sua lotta implacabile contro gli ostacoli che lo separano dalla libertà.

Ma ciò che Fontaine opera sulla porta non è troppo dissimile dal gesto cinematografico che Bresson compie sulla compattezza della realtà: inciderla, frammentarla e ricomporla per raggiungere una dimensione ulteriore. Manomettere la realtà per scassinarla e raggiungere l'ignoto, il mistero. Pazientemente: con un lavoro di scomposizione e ricomposizione che non mostri i segni della manomissione se non in quanto indizi impercettibili, tracce appena visibili. Impalpabili. È un lavoro nel quale la ricomposizione della superficie scheggiata (non è forse, quella di Fontaine, una montatura che rievoca il montaggio?) comporta una cura tanto attenta e premurosa quanto la scomposizione preliminare: "Ce qui me prenait beaucoup de temps c'était la remise en place et le camouflage" ("Ciò che mi prendeva molto tempo era la ricomposizione e la mimetizzazione"). In questa volontà inflessibile si fondono intenzioni e gesti del prigioniero Fontaine e del cineasta Bresson: uomini che, per raggiungere una dimensione negata dalla realtà, smontano e rimontano la materia prima, ognuno con i mezzi ridotti che questa stessa realtà, accidentalmente, mette a loro disposizione.

Ecco precisarsi con argenteo rigore l'«anti-sistema» di Bresson: suggerire, per via d'immagini allusive, l'orizzonte interiore del mondo, ciò che avviene tra le cose. Si tratta di una strategia quasi militare ("Cinématographe, art militaire. Préparer un film comme une bataille", Note sul cinematografo): accerchiare ciò che non è immediatamente o direttamente figurabile attraverso un'attitudine privativa che sottragga la visione integrale dello spazio e degli eventi. Una forma ablativa di rappresentazione che fa dell'assenza il suo centro gravitazionale: ciò che non vedi è quello che conta, è lì che risiede il mistero. Il cuore dell'azione scompare (la prima sequenza del film lo annuncia a chiare lettere), inghiottito dall'enigma che cela e rivela al contempo: il procedimento metonimico (la parte per il tutto o la sostituzione della causa con l'effetto) ne è il precipitato estetico. Nel vuoto, la verità infigurabile.

Sarebbe inutile e scriteriato tentare di dire qualcosa di nuovo su un film di cui è stato già detto tutto (per le informazioni di prammatica rivolgersi altrove, grazie). Ciononostante, mi preme mettere in luce un aspetto paradossale che mi ha profondamente colpito durante l'ennesima revisione di questo capolavoro (per una volta l'abusato termine ritrova la sua luminosità): il quarto lungometraggio di Bresson, di cui onoriamo qui i sessanta anni dalla sua uscita nelle sale francesi, dimostra con adamantina chiarezza che per raggiungere la verità (l'evocazione del segreto dell'essere attraverso la menzogna di ciò che appare ma non è) occorre un costante e inesorabile sforzo di falsificazione. In Un condannato a morte è fuggito tutto è all'insegna dell'impostura: si pensi alla falsa innocenza dei prigionieri di fronte allo sguardo dei sorveglianti (l'apparente docilità dei detenuti nasconde una febbrile attività clandestina), alla falsa staticità (una miriade di microeventi brulica nel film, mettendo lo spettatore in un ininterrotto stato di allarme), alla falsa appartenenza del film al genere carcerario (la prigionia di Fontaine non è che un pretesto per parlare della reclusione esistenziale di ogni essere umano), alla falsa impronta fenomenologica (la forte frammentazione della continuità smentisce di fatto il postulato dell'oggettività) e, infine, alla falsa letterarietà (il sapore distintamente letterario della voce narrante di Fontaine non intacca la disadorna austerità dell'arrangiamento visivo). Ciò che appare attiene alla menzogna, insomma, e il suo solo compito è quello di evocare la dimensione del segreto: l'essere implica il non apparire. E il cinema di Bresson perseguirà sempre più radicalmente, da Pickpocket (1959) in poi, titolo sottrattivo se mai ve n'è stato uno, questa rapina del visibile a esclusivo vantaggio dell'essere. Perché vedere tutto significa mancare la pungente intensità delle cose.

Qualche giorno fa, traversando i giardini di Notre-Dame, incrocio un uomo i cui occhi colgono dietro di me qualcosa che io non posso vedere e s'illuminano d'improvviso. Se, contemporaneamente all'uomo, avessi visto la giovane donna e il bambino verso i quali si mise a correre, quella faccia felice non mi avrebbe tanto colpito; forse non ci avrei nemmeno fatto caso.
Robert Bresson, "Note sul cinematografo".


Nota sul doppiaggio

 

Non saprei dire con esattezza quante versioni di questo film abbia visto (probabilmente intorno alla dozzina), ma di una cosa sono certo: vedere Un condamné à mort s'est échappé in originale costituisce un'esperienza totalmente diversa rispetto alla versione doppiata. Oltre alle consuete alterazioni linguistiche che ogni traduzione comporta e oltre all'inevitabile perdita del carattere macchinico della dizione così cruciale in Bresson, in questo caso assistiamo ad altri due fenomeni letteralmente aberranti. In primo luogo è anche la sintassi del testo originale a subire plateali distorsioni e omissioni: giusto a titolo di esempio, "Durant l'attente, dans la cour, je m’étais habitué à l'idée de la mort. J'aurais préféré une exécution immediate" diventa "Abituarsi alla morte… Ero così vicino alla fine da desiderarlo". In secondo luogo, soprattutto, è l'assedio costante dei rumori del carcere, un vero e proprio traffichio persecutorio, a ridursi ad amorfo e smorzato rumore di fondo. E così questo concerto per cucchiaio, chiavi e fil di ferro in do minore si tramuta in un film in sordina.

Pubblicata su www.spietati.it.

venerdì 14 ottobre 2016

FRANTZ

 




Al termine della Prima guerra mondiale, in una cittadina tedesca, Anna si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Frantz, morto al fronte in Francia. Un giorno incontra Adrien, un giovane francese anche lui andato a raccogliersi sulla tomba dell'amico tedesco. La presenza dello straniero nella cittadina tedesca susciterà reazioni sociali molto forti e sentimenti estremi (dal pressbook). 






Presentato in concorso alla 73ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Premio Marcello Mastroianni a Paula Beer per la miglior attrice emergente.
Distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 22 settembre 2016.

I - Premessa autoreferenziale: il principio vitale della metamorfosi 


Nel secondo numero di INLAND. Quaderni di cinema, ho tentato di individuare ciò che, semplificando quel tanto che basta a rappresentarsi le cose, ho definito l'"elemento ozoniano", vale a dire quell'elemento capace di assumere la posizione di fulcro nell'intero cinema di François Ozon, assicurando all'insieme dei suoi film un'organizzazione dinamica e singolare. Mi permetto di rimandare spudoratamente al contributo di INLAND poiché lì passo in rassegna la sua intera filmografia alla luce di questo ipotetico elemento fondamentale (cosa che mi asterrò scrupolosamente dal fare in questa sede). Mette comunque conto riportare sinteticamente l'ipotesi formulata in quel breve saggio, perché di fatto è la stessa che orienta le seguenti riflessioni. In La pelle e la traccia: riscritture del sé. Il cinema trasformazionale di François Ozon ipotizzo dunque che questo fatidico elemento risieda nell'esigenza di cambiare continuamente pelle, mantenendo come traccia permanente la riscrittura dell'identità: "Non una variazione sul tema identitario condotta con sguardo immutabile, ma una dialettica che impegna e investe lo statuto dello stesso sguardo: l'epidermide muta di pellicola in pellicola, la traccia persiste nella metamorfosi stessa". Nel cinema di Ozon, insomma, ogni pellicola (alla lettera "piccola pelle") non farebbe che ripeterci questo: l'identità resta florida solo a condizione di mutare, il suo nucleo vitale non coincidendo affatto con l'unità definitiva e difensiva ma, al contrario, con la trasformazione permanente. Questo, in estrema sintesi, quello che ritengo essere l'elemento specifico, originario e semplicemente irrinunciabile del suo cinema, elemento che a mio avviso trova compiuta incarnazione in Ricky, infante alato nel quale convergono, facendo e facendosi corpo, i tratti di un'identità rigogliosa poiché libera di dispiegare le marche della differenza e quelli di un cinema che della metamorfosi ha fatto un vero e proprio principio vitale.

Osservato da questa angolazione, il radicale del cinema di Ozon coinciderebbe quindi con la mutazione pellicolare e, al tempo stesso, con l'identità come trasformazione, movimento continuo, plasticità dinamica. Ovviamente non si tratta del cencioso concetto di adattamento (il che trascinerebbe l'intero discorso sul versante del conformismo), ma, più precisamente, della necessità di non lasciarsi intrappolare dal protocollo affettivo ricevuto e assumere soggettivamente, riscrivendolo, il destino già programmato per ciascun individuo dal complesso di norme e istituzioni sociali (la famiglia in primo luogo). Tuttavia, lo ripeto, questo movimento non interessa soltanto i personaggi messi in scena di film in film, ma coinvolge lo stesso dispositivo cinematografico di Ozon, sottoponendolo a torsioni, deformazioni e riconfigurazioni ininterrotte (è una cosa che Melvil Poupaud ha detto con invidiabile essenzialità: "Gira molto e cambia stile ogni volta, restando personale al tempo stesso"). Questa esigenza trasformazionale è così irrinunciabile da aver portato Ozon a concepire persino il "film-mix" Quand la peur dévore l'âme (2007), ibrido intertestuale creato con la libera combinazione di parti di Secondo amore (Douglas Sirk, 1955) e La paura mangia l'anima (Rainer Werner Fassbinder, 1974). Mi pare assolutamente evidente che questo mediometraggio inveri formalmente il principio vitale della poetica ozoniana: plasmare nuove identità a partire dalla riconfigurazione di quelle ereditate.


II - Spostamento del punto di vista: condividere l'inconsapevolezza

 

Ebbene, questo movimento di riappropriazione e soggettivazione è esattamente quello che permea Frantz, film liberamente ispirato a L'uomo che ho ucciso (Broken Lullaby, 1932) di Ernst Lubitsch - pellicola a sua volta basata sulla pièce teatrale L'Homme que j’ai tué di Maurice Rostand. Il rapporto coi lavori di Rostand e Lubitsch è molto simile a quello che contraddistingue Quand la peur dévore l'âme: pièce e pellicola vengono assunti come testi da rispettare esteriormente e riscrivere intimamente. Ne scaturisce una sorta di palinsesto che si nutre delle raschiature e delle interpolazioni imposte soggettivamente alla materia di partenza. La ripresa soggettiva di Broken Lullaby si compie infatti all'insegna di uno stravolgimento plateale: il ribaltamento del punto di vista dominante. Se il lavoro teatrale di Rostand e la pellicola di Lubitsch sposavano il punto di vista del protagonista maschile, Ozon sposta il baricentro emotivo e cognitivo sullo sguardo della fidanzata del soldato tedesco ucciso in trincea. Lo spostamento del punto di vista induce una profonda riconfigurazione della materia di partenza, poiché, pur mantenendo la tela narrativa di fondo (ambientazione storica e dinamiche drammaturgiche di base), l'adozione del nuovo angolo visuale comporta un posizionamento dello spettatore radicalmente differente: non più una posizione onnisciente e trepidante per il senso di colpa provato dal giovane francese che si reca in Germania per piatire il perdono, ma una condizione di inconsapevolezza e curiosità condivisa con la protagonista femminile che ha perso il fidanzato in guerra. In termini narratologici, ci troviamo in una situazione di focalizzazione interna, ovvero sappiamo soltanto ciò che sa Anna (Paula Beer) e ogni sua acquisizione cognitiva coincide con un nostro passo in avanti verso la scoperta della verità. Il desiderio di Ozon, come espresso dalle dichiarazioni contenute nel pressbook, si concentra fondamentalmente su questo nuovo orientamento narrativo: "il film di Lubitsch (…) è molto simile allo spettacolo teatrale e adotta lo stesso punto di vista, quello del giovane francese. Il mio desiderio invece era di adottare il punto di vista della ragazza che, così come lo spettatore, non sa perché quel giovane francese si reca sulla tomba del suo fidanzato".

È fin troppo semplice rilevare come questa dislocazione del punto di vista scateni l'attività congetturale dello spettatore. Detto più semplicemente, lo spettatore, privato dell’onniscienza di cui godeva nella pièce di Rostand e nella pellicola di Lubitsch, si trova costretto a formulare ipotesi sulla reale identità di Adrien (Pierre Niney) e sulla relazione che questo sconosciuto aveva con Frantz (Anton von Lucke). Chi è questo giovane francese spuntato dal nulla? Quale rapporto lo lega a Frantz? Perché è così ossessionato dalla memoria del defunto? Tutte queste domande non hanno luogo in Broken Lullaby, dal momento che lo spettatore sa fin dall'inizio che Paul (questo il nome del soldato francese nel film di Lubitsch) ha ucciso l'imbelle Walter in trincea (donde l'eloquente titolo L'uomo che ho ucciso). Insomma, in Frantz non è più la colpevolezza del soldato francese a menare le danze e costituire il nucleo emotivo della vicenda, ma l'inconsapevolezza equamente condivisa tra Anna e lo spettatore. Ed è proprio questa condizione d'inconsapevolezza condivisa a creare i presupposti di quella metamorfosi identitaria che, come abbiamo visto, costituisce il principio vitale del cinema di Ozon: è solo sulla base di questa incertezza che può svilupparsi la disponibilità all'apertura e alla trasformazione soggettiva. In palio c'è qualcosa di molto più cruciale del semplice intrattenimento: lo spostamento del punto di vista non risponde soltanto all'accrescimento del mistero intrigante, ma, soprattutto, all'allestimento di un teatro interiore propizio al dispiegamento della metamorfosi. Una metamorfosi che, naturalmente, investirà in primo luogo l'identità della protagonista, ma che, grazie alla centralità del suo punto di vista, coinvolgerà indirettamente e provvisoriamente (quanto meno per la durata della visione) anche quella dello spettatore.


III - Il movimento come materializzazione del percorso di trasformazione

 

È il movimento, in effetti, a rappresentare l'aspetto più appariscente di Frantz, un movimento che dapprima interessa la sola Anna, ma che, per interposta protagonista, finisce per contagiare lo spettatore: nel movimento del personaggio vediamo materializzarsi il suo stato e le sue potenzialità dinamiche, immedesimandoci nel suo percorso fisico e psicologico. Non è affatto fortuito che il film si apra sulla camminata della ritrosa Anna per le strade, i vicoli e le scalinate (elemento dinamico tutt'altro che secondario nel cinema di Ozon, basti pensare alla rilevanza scenografica della scala in 8 donne e un mistero) della cittadina tedesca di Quedlinburg. In questo silenzioso e solitario tragitto, non a caso completamente assente nel film di Lubistch in cui una dissolvenza incrociata elide classicamente il percorso dal negozio di fiori al cimitero, ci mettiamo in cammino insieme al personaggio, osservando il suo disinteresse per gli uomini che la guardano, interrogandoci sulla sua condizione, ipotizzando gli sviluppi futuri della vicenda. È del resto lo stesso Ozon a sottolineare l'importanza di questo incipit itinerante: "Mi piace molto riprendere i tragitti percorsi, è un modo concreto di materializzare l'idea del movimento dei personaggi e di mettere il film e i protagonisti in un luogo geografico. Era importante mostrare quella cittadina tedesca, quei tragitti dalla casa al cimitero, e poi fino alla Gasthaus. Guardare quel tragitto è interrogarsi sul personaggio, capire il suo percorso. All’inizio Anna è un po' ferma, gira su se stessa in questa cittadina. Per poi affrontare il grande viaggio che la porterà in Francia e la farà andare oltre le apparenze".

Ed è un indizio altrettanto rivelatorio il fatto che l'epilogo di Frantz sia scandito da un'altra camminata della protagonista, ma di senso diametralmente opposto a quello luttuoso e rassegnato dell'incipit: stavolta siamo al Louvre e Anna, di nuovo Giovane e bella (è stata la madre, spronandola a partire per Parigi, a sussurrarle "sei giovane e bella, non perdere questa chance!"), percorre i corridoi del museo con passo sicuro e spregiudicato, finalmente consapevole e disponibile all'incontro con l'altro (il dialogo conclusivo davanti al quadro di Manet ha quasi il sapore di un abbordaggio). Tuttavia non si tratta soltanto di emancipazione femminile, ma, più ampiamente, di trasformazione sentimentale, apertura all'esistenza. Ancora Ozon: “La sceneggiatura del film è costruita come un Bildungsroman, come un romanzo di formazione. Non ci conduce in un mondo di sogni o di evasione ma segue l'educazione sentimentale di Anna, le sue disillusioni riguardo alla realtà, alla bugia, al desiderio, alla maniera di un racconto iniziatico". Tra l'incipit chiuso nel dolore funereo e il finale aperto alla voglia di vivere ("Il me donne envie de vivre", dice Anna guardando il dipinto Le Suicidé) c'è l'incontro con Adrien, palese doppio di Frantz, c'è l'azione consolatoria della menzogna da lui avallata e, soprattutto, c'è la diversa piega che l'elaborazione del lutto prende per i due protagonisti. Momentaneamente ravvivato dalle bugie di Adrien, il romanticismo di Anna viene soffocato dalla scoperta della verità (le colorite passeggiate nella natura, ispirate alla pittura romantica di Caspar David Friedrich, perdono all'improvviso ogni umore cromatico). E se Adrien si rifugia vigliaccamente nell'abbraccio letale della famiglia, Anna non si lascia abbattere dalle disillusioni incassate a ripetizione, trovando al contrario, nell'acquiescenza del giovane francese, uno stimolo a cercare la propria indipendenza al di fuori della confortevole e mortale cornice domestica. Detto altrimenti, Adrien sopravvive fisicamente alla guerra in trincea e muore sentimentalmente tra le quattro mura della sua lussuosa dimora (il matrimonio programmato dalla madre con Fanny/Alice de Lencquesaing); mentre Anna, tentato il suicidio nelle fredde acque di un lago sassone per la disperazione, rinasce a nuova vita proprio dopo aver assaporato fino in fondo il veleno delle costrizioni familiari e averne osservato gli irreversibili effetti su Adrien (l'ultimo dialogo con la di lui perfida madre/Cyrielle Clair).


IV - Metamorfosi e suicidio: cambiare o morire

 

Tutto ciò ci riconduce, a posteriori, al principio della metamorfosi. Mi pare difatti che Frantz, analogamente e antiteticamente a Il tempo che resta, porti alle estreme conseguenze il discorso della trasformazione come questione di vita o di morte. Se il film del 2005 ci mostrava che persino la morte imminente poteva rappresentare un'occasione di apertura al cambiamento (il titolo del film fa pensare non solo al tempo che resta da vivere nella vita di un uomo, ma anche al tempo che rimane davvero della sua vita), Frantz ci mostra che l'ombra della morte può cadere sul soggetto in vita, perfettamente sano e con molti anni davanti a lui. In altri termini, se Il tempo che resta mostrava l'apertura alla vita perfino nella morte annunciata, Frantz mostra inversamente la chiusura mortale nella vita agiata. Con Frantz, insomma, ci troviamo di fronte alla formulazione definitiva delle conseguenze derivanti dall'incapacità di trasformarsi, dalla riluttanza nell'abbracciare il percorso della metamorfosi: rinunciare alla trasformazione equivale a una condanna a morte, al suicidio o alla morte in vita (che, in fondo, è esattamente la stessa cosa). E sono proprio i due tentati suicidi di Frantz a suggerire cinematograficamente questa equivalenza: nel momento in cui le possibilità di cambiamento appaiono sbarrate (Anna ha scoperto la menzogna di Adrien; Adrien è tornato in Francia con la coda tra le gambe), entrambi i personaggi provano a farla finita. Ma se Anna viene salvata dall'inopinato soccorso di un passante e, nonostante l'amarezza del disincanto, ritrova lentamente il desiderio di vivere (i genitori di Frantz e il confessore in questo senso favoriscono il suo recupero), Adrien, benché scampato al tentato suicidio, muore virtualmente rinunciando a spezzare la lapidaria linea familiare (quello di Adrien è fin troppo emblematicamente un destino di morte, le sue iniziali incise sulla tomba dello zio colonnello sanciscono per metonimia che il suo slancio vitale è ormai morto e sepolto). Non è pertanto fortuito che sia il solo tentato suicidio di Anna a essere rappresentato integralmente, mentre quello di Adrien è ricostruito per via indiziaria attraverso consultazioni di medici, registri clinici e, infine, testimonianze dello stesso giovane. È proprio questa mancata rappresentazione, che ovviamente non risponde a esigenze di sintesi (una breve scena dell'atto avrebbe occupato molto meno tempo della lunga e fuorviante indagine di Anna), a segnalarne tutto il peso specifico: affidando alla ragazza tedesca il ruolo attivo e ostinato di detective, il film allude al fatto che Adrien sia ormai un residuo passivo, un morto vivente sepolto in una tomba non meno marmorea di quella in cui è tumulato lo zio, il castello di famiglia. Nella ricerca dello scomparso Adrien (non suona più nell'orchestra, non è più ricoverato nella clinica psichiatrica, non è più a Parigi), Anna non ha fatto che passare da una tomba all'altra, da un sepolcro all'altro. E se lei continua a muoversi e cambiare, Adrien, ormai condannato a deperire comodamente, ha letteralmente smesso di farlo: "È troppo tardi", gli dice piangendo e dandogli un bacio in extremis mentre il suo treno per Parigi è sul punto di partire.

Azione castrante della madre di Adrien e morte in vita di quest'ultimo, funzione emancipatoria dei genitori di Frantz e del confessore e, infine, movimento/mutamento liberatorio di Anna: il quadro d'insieme sembrerebbe completo. Ma di fatto manca un dettaglio fondamentale: perché il film s'intitola Frantz anziché "Anna", "Anna e Adrien" e via ipotizzando? Quale posizione occupa il giovane tedesco ucciso ancor prima dell'inizio del film? In primo luogo, il suo ruolo di assente onnipresente non è troppo dissimile da quello rivestito dalle figure maschili nella celebre commedia Donne (The Women, 1939) di George Cukor: pur essendo rigorosamente esclusi dalla scena tutta al femminile, gli uomini sono i protagonisti assoluti dei dialoghi e delle dinamiche rappresentate. In virtù della sua assenza fisica, insomma, Frantz acquisisce una presenza drammaturgica così ingombrante da farsi chiodo fisso, ossessione inestirpabile: la replica di Anna alla madre di Adrien al termine del dialogo di congedo - "Non sono io che tormento suo figlio, signora, è Frantz" - esplicita definitivamente l'onnipresenza di questo fantasma aleggiante su tutto il film. In secondo luogo, di gran lunga più decisivo del primo, Frantz riassume esemplarmente in sé i tratti dell'auctor in fabula, non soltanto rivestendo il ruolo di doppio fantomatico di Adrien (col violino a fare da sonante oggetto mediatore tra i due), ma, soprattutto, assumendo a pieno titolo la funzione registica. Detto in termini più brutali, Frantz rappresenta lo stesso Ozon all'interno del film. Non è solo l'ovvia concatenazione lessicale "Frantz>Französisch>Français>François" a suggerire questa assimilazione, ma, meno banalmente, il suo agire nell'ombra e il suo palesarsi nel riflesso di Adrien. Che cosa fa Frantz oltre a morire in trincea e ossessionare i personaggi con la sua assenza? Scrive una lettera che funziona come una sceneggiatura, elegge Adrien a suo sostituto in una sorta di casting suicida e, dettaglio letteralmente determinante, vigila sornione sull'intera vicenda. È lui che, in albergo, occhieggia dall'altra parte dello specchio stabilendo una complice intesa con Adrien, complicità che suona distintamente come un'investitura ufficiale. È il suo sguardo a oggettivarsi virtualmente nei punti macchina: durante il primo pranzo in casa Hoffmeister, la camera inquadra la scena dalla prospettiva che nel film di Lubitsch era occupata dalla sedia vuota del giovane caduto, il "posto del morto". Sceneggiatore fantasma, occulto artefice del casting e benevolo promotore dell'incontro tra Anna e Adrien, Frantz è in definitiva l'autentico demiurgo che muove i fili dietro le quinte e che, in un estremo gesto di annichilimento a vantaggio della sua protegée, si suicida figuratamente e figurativamente per ridarle di nuovo “envie de vivre”. La metamorfosi si è compiuta, il bianco e nero funereo si è finalmente convertito in colore schioccante: Frantz/Adrien/François può definitivamente eclissarsi e fissarsi in pura immagine, ostacolo ormai estraneo alla gioiosa vitalità di Anna.

V - Postilla autoreferenziale: coazione a non ripetere

 

Al termine di questa smisurata celebrazione della metamorfosi, non posso fare a meno di interrogarmi brevemente sul limite più insidioso dell'intero discorso. Se è vero che il cinema di Ozon è rigorosamente anticonservativo (molto più che anticonvenzionale), è altrettanto vero che questo rigore ha qualcosa di programmatico e vagamente impositivo. La celebrazione del movimento trasformativo come fatto irrinunciabile non rischia forse d'irrigidirsi in norma tanto inderogabile e costrittiva quanto il protocollo notarile dal quale ci si vorrebbe smarcare? È questa ipoteca normativa ad apparirmi sempre più chiaramente come il limite interno (e nascosto) del suo cinema: in forma di domanda retorica, qual è la differenza tra coazione a ripetere e coazione a non ripetere?

Pubblicata su www.spietati.it.

mercoledì 5 ottobre 2016

ONE MORE TIME WITH FEELING







"One More Time With Feeling" documenta la registrazione del sedicesimo album in studio di Nick Cave & the Bad Seeds (Skeleton Tree), affrontando le ripercussioni intime della morte di Arthur, il figlio quindicenne di Nick Cave. 










Presentato Fuori Concorso al Festival di Venezia 2016 e uscito nelle sale italiane per due soli giorni (27 e 28 settembre), One More Time with Feeling avrà una nuova distribuzione nei cinema a partire dal primo dicembre.


I - La sostituzione della campagna promozionale

 

È stato Nick Cave a chiedere esplicitamente ad Andrew Dominik di realizzare un film che lo esentasse in qualche misura dall'esposizione pubblica e funzionasse come una sorta di un live show cinematografico, dispensandolo dall'incombenza della promozione del suo ultimo disco Skeleton Tree (ecco perché Cave non era a Venezia ed ecco perché i video del nuovo album sono veri e propri estratti del film). Insomma, One More Time with Feeling è a tutti gli effetti un film sostitutivo, un lavoro che sta per qualcos'altro: gli incontri con la stampa, la presentazione del disco, i concerti in giro per il mondo. Per il momento c'è il film al loro posto e già questa sostituzione dovrebbe farci drizzare le antenne: anziché qualcosa che avviene nella realtà e nel corso del tempo, abbiamo un sostituto cinematografico che condensa e rimpiazza tournée e campagna promozionale. I motivi per i quali Cave ha deciso di girare il film rivolgendosi proprio a Dominik sono numerosi e non starò certo a elencarli (basti menzionare la lunga amicizia tra i due, complice involontaria Deanna Bond, ex fidanzata di Cave e attuale compagna del regista). Ma tra questi almeno uno non può essere omesso, poiché, seppur universalmente noto, costituisce l'ostacolo inaggirabile della questione: la morte di Arthur, figlio quindicenne dell'artista australiano e fratello gemello di Earl, che compare a più riprese nel film. Così Dominik a proposito della dolorosa congiuntura attraversata da Cave: "When he realized he had to promote the record, the thought made him feel sick: talking to journalists, discussing Arthur. He didn't feel he could do it with strangers. The initial instinct for Nick was to protect himself, so he didn't have to answer questions. It becomes the only subject that there is, all the film is dealing with is Nick's grief feelings".

Come possiamo facilmente indovinare, alla funzione inizialmente alternativa alla promozione e all'esibizione pubblica si accompagna, complicandola, una funzione fortemente elaborativa e contenitiva. Sta di fatto che, a una prima occhiata, il dato più appariscente del film sembra consistere nella stratificazione, nell'accavallarsi e intrecciarsi di molteplici livelli compositivi: il bianco e nero quasi integrale, le esigenze di calibratura del 3D, i dialoghi con Warren Ellis, Cave, la moglie Susie e il figlio Earl, la messa a punto dell'arrangiamento per le incisioni, le esecuzioni musicali in studio, le liriche pronunciate in voce over da Nick, le riflessioni dello stesso Cave su frammenti del girato, le aperture ambientali su Brighton, Londra e così via. Si crea una gerarchia rigida tra i vari strati? Almeno in parte sì, impossibile non riconoscerlo, giacché la funzione performativo-promozionale è salvaguardata e solidamente eseguita: i brani di Skeleton Tree ci sono tutti, video inclusi (non dimentichiamo che Cave, come sottolineato da Dominik, ha finanziato il progetto personalmente: "Nick paid for the film out of his own pocket, and I would like for him to recoup his investment. It's basically to sell the record, that's the idea of the film"). Ciononostante, espletata la commissione promozionale, la stratificazione si svincola dalla gerarchizzazione dei livelli e genera una fertile confusione inclusiva che possiede due caratteristiche fondamentali: da una parte oggettiva cinematograficamente la necessità di prevenire l'effetto di spettacolarizzazione del dolore (la minaccia onnipresente del "grief porn") e, dall'altra, inscrive nel tessuto compositivo il processo ancora incompiuto dell'elaborazione del lutto, processo che, com'è noto, non può fare a meno dei tre requisiti del tempo, del dolore e della memoria (Arthur è morto nel luglio 2015 e i 10 giorni di riprese del film si collocano nel febbraio 2016, poco più di 6 mesi dopo il drammatico evento, ai quali si sono aggiunti successivamente alcuni frammenti girati in aprile).


II - Il mantello protettivo del 3D

 

Includere la confusione nel film diventa quindi doppiamente necessario: scongiurare l'oscenità del grief porn da un lato e, dall'altro, mostrare l'elaborazione del lutto in corso (il titolo One More Time with Feeling mi pare suggerire proprio questa idea di processo in cui il tempo dell'elaborazione non è ancora terminato, ma ha bisogno di un supplemento, un ulteriore lasso per compiersi a sufficienza). Non è del resto un mistero che Dominik abbia concesso a Cave e alla moglie Susie la facoltà di scartare dal montaggio finale le parti sgradite (un accordo dello stesso tipo lo vediamo stabilire all'interno del film con Earl, durante il primo incontro familiare nello studio di registrazione). Oltre a queste due caratteristiche fondamentali, la confusione inclusiva produce un altro effetto: la costruzione di un luogo astratto - o un non-luogo se preferiamo - la cui esistenza è squisitamente cinematografica (è vero che le riprese si sono svolte tra Londra e Brighton, ma i continui accavallamenti audiovisivi impediscono alla dimensione geografica di ancorare stabilmente le sequenze). Questo luogo astratto e squisitamente filmico ci avvicina al mantello affettivo di One More Time with Feeling, un mantello rappresentato sia da Warren Ellis che dalla tecnica di ripresa in 3D. Storico collaboratore di Cave e autentico collante dell'equilibrio collettivo, Ellis è non solo la figura che tiene insieme i pezzi (Cave lo dice a chiare lettere in una delle riflessioni in voice over), ma è anche colui al quale gli scontenti Nick e Susie hanno concesso l'ultima parola sul destino del film (Andrew Dominik: "Susie didn't like anything with her and Nick didn't like anything with him, but they liked each other. And so what they did was show it to Warren and he basically decided the fate of the film. Fortunately Warren liked it all, so it just got left alone").

Ebbene, la ripresa/visione in rilievo, fortemente suggerita per un film che nella dimensione spaziale ha la sua flagranza, possiede la stessa proprietà contenitiva e protettiva attribuita da Cave a Ellis: tiene insieme i pezzi in un abbraccio che non soffoca in una stretta apprensiva e che, pur assicurando coesione strutturale, non costringe le diversità in un ordine prestabilito. E, soprattutto, protegge l'intimità dei soggetti senza comprometterne la singolarità, anche quando questa coincide con una vulnerabilità prossima al disfacimento. Come precisato da Dominik, l’ambizione del film consiste esattamente nel prendersi cura della fragilità di Cave (e della sua famiglia, occorre aggiungere), sbozzando un'embrionale struttura narrativa in cui i sentimenti informi, confusi e dolorosi possano depositarsi in cerca di un senso e di una forma possibili: "But it's a guy trying to make a record, and there's all this noise around him and inside him is an inner voice that is constantly struggling and trying to deal with his feelings. It's about giving them a narrative structure that can help him make some sense of something that doesn't make a lot of sense. That's the whole ambition of the film. It's supposed to portray the confusion and the beauty". Avvolgere la confusione nel mantello 3D, insomma, significa circoscrivere un lavorio interiore che può essere rappresentato solo in chiave spaziale e in tonalità minore (il bianco e nero scheletrico, la struttura narrativa minimale coincidente col film stesso come contenitore): del resto la dimensione temporale e grandiosamente trasformativa era già stata ampiamente celebrata in 20,000 Days on Earth, pellicola in cui la magniloquenza espressiva assecondava la tendenza all’ostentazione megalomanica di Cave e in cui la trasformazione performativa aveva i tratti quasi mistici dell'ascensione raggiante (l'esecuzione live di Jubilee Street sopra ogni altra cosa: "I'm transforming / I'm vibrating / I'm glowing / I'm flying / Look at me now / I'm flying / Look at me now").


III - Il nucleo vuoto del trauma

 

Così, se 20,000 Days on Earth era tanto lineare quanto pieno di Cave, One More Time with Feeling va nella direzione opposta, accumulando frammenti caotici e svuotando. Qui è la qualità spaziale (della musica e non solo) a prevalere, è l'accumulo di sequenze costruite con pezzi di cose concepite in momenti differenti a strutturare il film. E, soprattutto, è la sensazione letteralmente indicibile del vuoto a imporsi come nucleo doloroso che il mantello tridimensionale, in questa rappresentazione simile alla stratificazione terrestre, abbraccia e custodisce premurosamente. All'interno di questo spesso involucro protettivo che cosa si trova? Nient'altro che lo spaventoso vuoto del trauma, un "anello" o "recinto" (parole dello stesso Cave) che, aprendo una voragine nel reale, non offre più una versione grandiosamente narcisistica della trasformazione, ma obbliga, semplicemente e inevitabilmente, al cambiamento. Cave lo dice molto bene nel film: "La maggior parte di noi non vuole cambiare veramente. In effetti, perché dovremmo? Ciò che inseguiamo è una sorta di variazione dal modello originale. Proviamo sempre ad essere noi stessi - versioni migliori di noi stessi. O almeno così ci auguriamo. Ma cosa succede quando un evento è così catastrofico da cambiarci completamente? Ci trasformiamo in persone sconosciute. Così quando ci guardiamo allo specchio, riconosciamo la persona che eravamo. Ma ora dentro la nostra pelle vive una persona diversa". È questo buco nel reale a costituire l'autentico nucleo irrappresentabile, vuoto e gravitazionale del film, un nucleo traumatico che il film tenta di costeggiare e circoscrivere senza fargli violenza, senza risolverlo finzionalmente, senza incapsularlo in una struttura rigida e simbolicamente consolatoria. Ancora Dominik: "The real feeling is not one of sadness or one of anger, it's this incredible feeling of emptiness. He talks about it as a trauma, and that's really what it is. He has not been able to create some story around it that contains it or encapsulates it in the same way that you can when you're talking about a song or some other experience. I hope what the film manages to do is to express that confusion. That it isn't resolved".

In altri termini, One More Time with Feeling non è un surrogato narcisisticamente immaginario della perdita (il vieto cliché del dolore che alimenta la creatività) né una protesi simbolica incaricata di colmare il buco reale provvedendo un supplemento narrativo tornito e rassicurante (Dominik: "I don't think perfection is your friend, I think perfection is the enemy"), ma, molto più semplicemente, una testimonianza spaziale (essere lì, in quella situazione, e inquadrare: "We worked framing, which is just pointing the camera", dice Dominik nella conferenza stampa veneziana) che si guarda bene dal proporre un arrangiamento terapeutico o una conformazione normativa alla materia rappresentata. Se questa rispettosa inclusione rifletta in qualche misura l'istintiva soggezione di Dominik per Cave non è dato sapere né rileva minimamente in questa sede, quello che è certo, invece, è che tempo, dolore e memoria sono lasciati integralmente all'interiorità del musicista australiano, il film attenendosi a testimoniare un processo in atto. Ed è proprio questa intimità avvolgente del 3D che dà al film un valore intensamente topologico, un valore in cui lo spazio acquisisce vivide connotazioni psichiche: i 35' di performance musicali riverberano nella cassa di risonanza tridimensionale al cui centro, avviluppato dall'accidentata improvvisazione delle riprese, risiede il vuoto irrappresentabile del trauma, preservato nella sua radicale indicibilità.

One More Time with Feeling non ha dunque la pretesa di riannodare forzosamente reale, immaginario e simbolico di Cave in un'illusione di guarigione post-traumatica (qui il dopo non esiste, c'è solo il presente sfrangiato, aperto e intrinsecamente incompiuto), ma intende, al contrario, preservare il processo in corso con una distanza intima e benevolente (il bianco e nero contribuisce a questo distanziamento discreto, ovvero non invasivo e insieme apprezzabile). Non si tratta, ovviamente, di neutralità dello sguardo: durata delle inquadrature e movimenti di camera (dolly felpati, carrellate circolari, avvicinamenti stetoscopici per amplificare la pulsazione spaziale della musica) esprimono con cristallina e permanente chiarezza la sollecitudine della rappresentazione, un impasto audiovisivo di complementarità e coinvolgimento. E, inversamente, non si tratta neanche di eccessivo pudore o ritrosia rinunciataria. Dal momento che il film deriva per forza di cose dall'intrusione in uno spazio intimo, tanto sul versante del processo creativo quanto su quello più strettamente personale (Dominik: "I always felt like I was intruding"), la questione cruciale di One More Time with Feeling si concretizza nell'esigenza di evitare sia il cinismo del grief porn che l'inibizione del commiserevole mutismo (ancora Dominik: "As a friend, I wouldn't ask Nick the questions that I would ask him as a director. And I had to be the director"). Si tratta, invece e in ultima battuta, di affidare a una consapevolezza non edulcorata dai cascami del sentimentalismo il coraggio di abolire la struttura narrativa riparatoria e accogliere la dirompenza della lacerazione nello spazio filmico. Perché in fondo a One More Time with Feeling, topologicamente e letteralmente, nel luogo terminale della galleria di ritratti e al luogo della persona evocata, non c'è l'immagine di Arthur, ma uno spazio bianco. Il trauma reale della sua scomparsa ha lasciato un vuoto che il film non può riempire, pena lo scadimento nell'assistenzialismo, ma soltanto mostrare nella sua irreparabile assenza. Uno spazio in cui egli è mancante, non più lì, realmente irrappresentabile.

Un ringraziamento all'amico Francesco Saccaro, le cui osservazioni sulla stratificazione connessa all'elaborazione del lutto hanno dato il via a queste riflessioni.

Pubblicata su www.spietati.it.